Luchino Visconti, come nasce il cinema antropomorfico

by Orio Caldiron

L’estate del 1942 è molto calda sul set di Ossessione addirittura incandescente. Si gira tra Ferrara, le rive del Po e Ancona, da me­tà giugno all’inizio di novembre. Nei primi giorni Clara Calamai è completamente spaesata, le mancano i vezzi e le trine di Cinecittà. «Via la per­manente!»,   urla   Luchino  Visconti  che  la  vuole struccata e spettinata come una donna qualsiasi.

Quando la diva si vede in proiezione, piange come una fontana. Ma viene brutalmente zittita. Neppu­re Massimo Girotti è a suo agio. Se prima il cinema gli sembrava un gioco, sin dall’inizio si accorge del clima diverso, più esigente e inquieto. La scena in cui deve rompere un bicchiere urtandolo con il gomito viene ripetuta un’in­finità di volte perché il bicchiere cade ma non si rompe. Luchino perde la pazienza e lancia sul pavimento tutti i bicchieri. I pezzetti di vetro volano davanti alle facce impie­trite degli attori. Nessuno osa intervenire per paura delle tempestose sfuriate del regista-dittatore.

SUL SET DEL PRIMO FILM

Luchino è però un dittato­re affascinante, dotato di una straordinaria capaci­tà di seduzione, in grado di plasmare gli attori pie­gandoli alla sua volontà. La brutalità del domina­tore è la chiave per strappare la corona alla star autarchica che, trattata male fino all’insulto, si innamora del regista e sco­pre dentro di sé le into­nazioni giuste per dare vita al personaggio vibrante e passionale, im­placabile e spudorato di Giovanna.

Il coinvolgimento emotivo e intellettuale gli serve per incantare Massimo che a poco a poco si trasforma nel personaggio di Gino, anche lui dominato dal regista che lo vuole sensibile, vul­nerabile, sempre in tensione come uno strumento musicale. Luchino si diverte a stuzzicarlo. Quando deve dare uno schiaffo alla Calamai, non gli sem­bra mai abbastanza violento. Gli fa ripetere la scena più volte fino a quando Massimo protesta: “Non posso darglielo più forte, se no l’ammazzo”. L’esercizio di sadismo diventa un’autentica scuola di recitazione perché solo in quel modo l’attore co­glie l’esasperazione impotente del personaggio e ne fa intravedere il nervo scoperto.

La vera rivelazione è Luchino Visconti, che al suo primo film è già un regista autorevole e maturo. Gli sbalzi improvvisi d’umore sono i tratti di un carattere difficile, non il segno dell’insicurezza. Il piglio disinvolto del giovane cineasta sorprende anche la troupe che, composta tutta da professionisti, sa distinguere per istinto i veri registi dotati del bastone del comando dagli amletici pivelli che lasciano mano libera all’operatore e agli interpreti.

Sin dai primi giorni Luchino sa perfettamente quello che vuole, dove mettere la macchina da presa, come comportarsi con gli attori. Se consulta l’assistente è per discutere qualche aspetto della sceneggiatura, mai per delegare le scelte tecniche che considera di sua esclusiva pertinenza. Peppe De Santis, che gli fa da assistente per alcuni mesi, sostituito poi da Antonio Pietrangeli, è il primo ad ammirare la grande sensibilità creativa di un esordiente in cui già si manifesta una straordinaria e prepotente personalità. L’esuberante De Santis morde il freno, ma deve accontentarsi di compiti marginali, al massimo dirigere i movimenti delle comparse sullo sfondo delle inquadrature, mentre la sua storia d’amore con Giovanna Valeri, la segretaria di edizione, si avvia al matrimonio.

Il perfezionismo maniacale che contrassegna la futura attività cinematografi­ca e teatrale del grande milanese fa già ammat­tire i tecnici. Sul set arri­va puntualissimo, prima di tutti, sempre scon­tento e intransigente, pretende il più assoluto realismo nei particolari anche in quelli più insi­gnificanti. Se nella sce­na c’è una tavola appa­recchiata, gli spaghetti non devono essere scot­ti e la bottiglia deve essere piena di vero vino. Il regista magro e tene­broso di Ossessione ha trentasei anni e discende dalla famiglia che per alcuni secoli ha retto la signoria di Milano. Quarto di sette tra fratelli e sorelle, è nato il 2 novembre 1906, una data jettatoria che lo scorpione deciso, coerente e aggressivo che è in lui considera la sfida della sua vita.

LA PASSIONE PER IL TEATRO

Il padre Guido eredita dal nonno il titolo di duca di Modrone, attribuitogli da Napoleone per la partecipazione alla campagna d’Italia. La madre Carla Erba, nipote del fondatore della nota casa farmaceutica, suona il pianoforte. La passione per la musica e il teatro coinvolge l’intera famiglia, che alla domenica pomeriggio non manca mai un appuntamento con la Scala. Luchino, che sin da ragazzo legge Shakespeare, nel piccolo teatro di casa organizza spettacoli, dirige i fratel­li e gli amici, scrive commedie e tragedie prima di provarsi nella narrativa con racconti e abbozzi di romanzi.

Quando compie vent’anni, dopo un’adolescenza irrequieta e un paio di fughe da casa, presto rientrate, Luchino viene mandato a fare il servizio militare alla scuola di cavalleria di Pinerolo. Da qui ritorna due anni dopo con il grado di sergente maggiore e la passione per i cavalli da corsa che allena professionalmente e con la caparbia determinazione di chi vuole sfondare. Si fa costruire una scuderia a San Siro e si trasferisce in un appartamentino in zona per essere più vicino ai cavalli. Ogni mattina all’alba è sul posto per seguire l’allenamento.

Considerato un vero intenditore, si afferma sul piano internazionale, imponendo i suoi colori di bandiera, il bianco e il verde, nelle gare più importanti. L’allenatore Ubaldo Pandolfi lo aiuta nella conduzione della scuderia e ammira l’intuito del conte, un vero sportman in grando di mettere in difficoltà lo stesso Federico Tesio, il numero uno galoppo italiano. Se l’acquisto di Giudecca è già una scelta felice, il colpo gobbo è Sanzio, ceduto da Tesio per una sciocchezza e rimesso in sesto con qualche mese di addestramento per trionfare poi ai pre­mi di Milano e di Ostenda. Il lavo­ro quotidiano di scuderia, le tra­sferte per recarsi alle aste dove si acquistano gli animali più pro­mettenti, la partecipazione ai maggiori concorsi ippici riempio­no la vita di Visconti fino ai primi anni trenta. Nello stesso modo in cui è esplosa, la passione si spegne poco a poco. Vende parte dei purosangue della sua scuderia e negli anni successivi si libera di ciò che resta dell’allevamento.

A PARIGI

Già da qualche anno sono diventati più frequenti i viaggi in Francia dove tra prime teatrali, balletti, opere liriche, corse di cavalli, entra in contatto con la società artistica che gravita attorno a Parigi. Si stabilisce per un certo periodo all’Hôtel Le Vouillemont in Faubourg Saint-Honoré. Nello scenario ricco di suggestioni e di richiami della ville lumière, nel fitto intreccio di rituali mondani e novità culturali, gli interessi di Luchino si ampliano, si approfondiscono le predilezioni teatrali e letterarie, rivissute alla luce di una ribalta più stimolante e più trasgressiva, in continuo cambiamento. Sono moltissimi i protagonisti della cultura internazionale che incontra anche solo per una volta e quelli di cui diventa amico come Jean Cocteau, Serge Lifar, Kurt Weill, Henry Bernstein, Marlene Dietrich. Horst P. Horst lo introduce ai segreti della fotografia, che prima gli era assolutamente sconosciuta. Ma nessuno ha su di lui l’ascendente di Coco Chanel, la regina dell’eleganza, una delle stiliste più inventive e controcorrente dell’intera storia della moda, sua grande amica e confidente. Il primo contatto con il cinema ri­sale a quando, undicenne, vede Malombra (1917) di Carmine Gallone con Lyda Borelli e ne è talmente turbato da fuggire a Cernobbio, dove si svolge la vicenda, e vagare in barca per il lago di Como. Se questo è il primo film che ricorda, ne vede certamente altri, muti e sonori, senza conser­varne memoria.

LA SCOPERTA DEL CINEMA

La vera scoperta del cinema, e delle sue possibilità artistiche, avviene durante i soggiorni parigini, negli anni in cui non si è ancora spenta l’eco di L’âge d’or di Luis Buñuel e di Le sang d’un poète di Jean Coc­teau. Se è profondamente colpito da Sinfonia nuziale di Eric von Stroheim, L’angelo azzurro di Josef von Sternberg l’affascina soprattutto per la magnetica presenza di Marlene Dietrich. Nello stesso periodo acquista una cinepresa e gira numerosi filmetti d’amatore in 16 millimetri, interpretati da parenti e amici. Nella metà degli anni trenta, tra il ’34 e il ’35, gira nella campagna lombarda un film in 35 millimetri con una troupe formata da professionisti. La storia del sedicenne di paese che si lascia travolgere dalle tentazioni della città, rappresentate da tre diversi tipi di donna, rimane incompiuto. Il film, come i precedenti tentativi più casalinghi, scompare nell’incendio di palazzo Visconti durante la guerra.

L’INCONTRO CON JEAN RENOIR

L’incontro decisivo è quello con Jean Renoir, promosso nel 1936 da Coco Chanel, amica di entrambi. Il grande regista, che sta preparando Partie de campagne,arruola Luchino come terzo assistente assieme a Jacques Becker e Henri Cartier-Bresson. I compiti dello stagiaire-accessoiriste del film renoiriano non so­no ben definiti, oscillano probabil­mente tra il trovarobe e l’aiuto-costumista. Ma d’altronde le équipe del maestro non sono mai molto gerarchizzate, per lui un film “si fa come si prepara un colpo, circon­dandosi dei complici giusti”. L’espe­rienza segna la svolta fondamenta­le nella biografia artistica del gio­vane milanese che, attraverso le lunghe conversazioni con Jean Renoir, comincia a guardare al cinema come a uno straordinario mezzo di espressione capace di dialogare, più e meglio dei mezzi tradizionali, con una grande, sterminata platea di spettatori.

Il fatto di essergli vicino, di seguirlo, di vederlo lavorare è essenziale. Affascinato dalla estroversa per­sonalità del grande regista, che esercita su di lui un’enorme in­fluenza, Luchino impara a dirige­re gli attori, si impadronisce dei segreti del cinema, dal modo in cui mettere la macchina da presa alla sintonia con la troupe, fondamentale in un’arte che nasce dalla collaborazione collettiva. “S’impara sempre da qualcuno, non si inventa mai niente”, dirà più tardi. Nello stesso perio­do, attraverso Renoir, entra in contatto con gli intel­lettuali francesi impegnati nell’esperienza irripetibi­le del Fronte Popolare. La svolta professionale fa tutt’uno con l’apertura verso la realtà sociale e politica, che gli era stata fino ad allora estranea.

Nel gennaio 1939 la morte della madre, alla quale lo lega un affetto profondo, segna per Luchino la fine di un’epoca: deciso a lasciare Milano, si trasferisce quasi subito a Roma, dove risiederà per il resto della vita. Nello stesso anno si rinsalda il rapporto con Jean Renoir. Il regista è in Italia con l’assistente Carl Koch per i sopralluoghi di Tosca, il film che ha accettato di dirigere per la Scalera dopo il clamoroso insuccesso di La règle du jeu. Avvolto in un lungo cappottone, Lu­chino guarda in macchina in una delle fotografie che documentano la passeggiata con Renoir e Koch a Vil­la Adriana, quando pensano di ambientare il film tra le rovine romane. L’impegno si delinea importante perché Luchino dovrà collaborare alla sceneggiatura e come aiuto-regista. Ma allo scoppio della seconda guerra mondiale, Renoir deve ritornare in Francia.

All’inizio del 1940 è di nuovo in Italia. La prepara­zione del film va a rilento. Soltanto a maggio si cominciano a girare alcuni esterni a Castel Sant’Ange­lo, dove il gusto dell’improvvisazione del grande re­gista inventa un brano straordinario in cui la mac­china, mediante la gru, sale fino al volto dell’angelo berniniano per scendere a inquadrare la mole del ca­stello. Quando il 10 giugno anche l’Italia entra in guerra, Renoir è costretto ad andarsene lasciando il film nelle mani di Koch, assistito da Visconti. Nel frattempo era avvenuto l’incontro con i giovani della rivista «Cinema», con Giuseppe De Santis, ma anche con Mario Alicata, Gianni Puccini e i fratelli Massimo e Dario, con Pietro Ingrao. Nel corso della lavorazione di Tosca i rapporti riprendono e si infittiscono fino a di­ventare decisivi sia per Visconti sia per il gruppo che aima la rivista. Non solo perché coagula attorno a sé le inquietudini e le aspirazioni dei giovani critici decisi a passare al cinema attivo, scrivendo sceneggiature e cominciando a pensare alla regia, ma perché rappre­senta una profonda sterzata, una sorta di terremoto interno nella vita di una pubblicazione che ha attra­versato stagioni diverse. Si apre una fase nuova che nel giro di qualche mese fa del quindicinale di divulgazio­ne cinematografica, diretto da Vittorio Mussolini, una rivista battagliera e polemica che interviene e prende
posizione. Una tribuna appassionata e coinvolgente anche per i giovani e i giovanissimi in grado di decifrare i segnali in codice degli articoli in cui più profonda se non più esplicita è l’opposizione al regime.

IL POSTINO DI JAMES M. CAIN

Luchino Visconti cerca con gli amici di «Cinema» di portare sullo schermo L’amante di Gramigna e altri rac­conti di Giovanni Verga, considerato lo scrittore-simbolo del rinnovamento del cinema italiano, ma tutti i soggetti vengono bloccati dalla fiera opposizione del Minculpop: «Basta con questi briganti!». Si concretiz­za invece il progetto della riduzione cinematografica di The Postman Rings Always Twice (Il postino suona sempre due volte) di James M. Cain, passategli da Renoir mentre da noi, il romanzo ancora non circola.

Il film è destinato a diventare il manifesto del “cinema antropomorfico”, in cui l’intero gruppo si riconosce, quando per molti di loro diventa più intenso l’impe­gno politico clandestino nella Resistenza. L’arrivo di Ossessione nelle sale fa scandalo. Alle reazioni negative della critica ufficiale e agli interventi preoccupati dei vescovi corrispondono le adesioni entusiastiche dei giovani critici e degli spettatori più attenti, che riconoscono qualcosa delle proprie ansie nella passione violenta e straziata di Giovanna e di Gino, nelle loro peregrinazioni d’amore e di morte sullo sfondo plum­beo del Po. Alla fine della prima romana del film, mentre molti si avvicinano al regista per stringergli la mano e esprimergli la propria ammirata solidarietà, Vittorio Mussolini esce dalla sala sbattendo la porta e urlando: «Questa non è Italia!».

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