Luigi Zampa, aggredire l’attualità

by Orio Caldiron

Quando se ne va nell’agosto del 1991, la critica si congeda con Luigi Zampa ormai lontano dal set da oltre un decennio riproponendo, al di là degli encomi di circostanza, l’atteggiamento riduttivo che gli aveva riservato nel corso di una lunga carriera ricca di titoli importanti ma evidentemente insufficienti ad ammettere nel pantheon dei grandi un regista estraneo al mondo cattolico come a quello comunista. Se l’establishment borghese l’aveva avversato a causa dei suoi film di denuncia satirica, la sinistra spesso insensibile agli sberleffi della comicità non l’aveva difeso, mentre entrambi gli rimproveravano il bozzettismo, la sciatteria stilistica, i risentimenti moralistici.

Sin dai primi film del dopoguerra il suo tratto distintivo sembra essere il richiamo all’attualità. Insieme alla scelta di muoversi nell’immediatezza, piazzando la macchina da presa tra le case bombardate, nelle balere in cui gli americani ballano con le signorine, nella borgata in cui manca l’acqua e tutto.

Lo spirito popolaresco del racconto si salda al rapporto con la cronaca che gli consente di lavorare sull’oggi in termini che assicurano ai suoi film il valore aggiunto del documento. Un americano in vacanza (1946) ricostruisce il vissuto quotidiano della capitale, con le “botticelle” che segnano il ritorno alla normalità, ma insieme rievoca il contributo delle forze alleate, degli italoamericani, della commissione vaticana alla ricostruzione del paese. Nella cantina della fattoria di Vivere in pace (1947), ambientato in un piccolo paese dell’alto Lazio, con la complicità del parroco e del medico trovano rifugio due prigionieri americani. La disponibilità cristiana di zio Tigna – un Aldo Fabrizi a briglia sciolta – si scontra nel drammatico finale con la tempesta della guerra, affidando a uno dei due americani il messaggio pacifista, l’immagine rassicurante di una società in cui ci potrà essere «una casa come questa, una maniera di vivere che mi piace e della gente a posto che sa quello che vuole».

LA PORTAVOCE DELLA BORGATA

Sin dalle prime inquadrature di L’onorevole Angelina (1947) si entra nelle povere abitazioni del quartiere romano di Pietralata che, costruito sotto l’arco del fiume, vive nella continua minaccia dell’inondazione. La protagonista diventa ben presto la portavoce dei disagi della borgata, la rappresentante delle donne che vedono in lei quella che sa “baccaiare” meglio, delegandole la dimensione politica dell’intervento e della contrattazione. Il film – vivo, sanguigno, vibrante – conferma che il populismo del regista convive con lo scatto dell’indignazione e della contrapposizione polemica. Ma anche con lo spunto comico, la battuta azzeccata, la sottolineatura ironica. Naturalmente, l’esuberanza di Anna Magnani, particolarmente coinvolta in un ruolo congeniale, è uno dei punti di forza del film, in cui Zampa, pronto a lasciare lo spazio necessario ai mattatori, come fa di solito coglie anche qui una folla di volti e di figure, utilizzando con intelligenza attori presi dalla strada e professionisti.

L’onorevole Angelina

La scoperta della realtà su accompagna all’indignazione con cui si affrontano le emergenze di un paese profondamente segnato dal fascismo, che si misura con la ricerca della propria identità cominciando a fare i conti con il rimosso. L’orizzonte è quello del neorealismo che riparte da zero al di fuori dei modelli più collaudati e si ripropone di allargare sempre di più lo spazio del visibile. Ma è anche quello del nuovo giornalismo che negli stessi anni si afferma soprattutto nei settimanali all’insegna della cronaca in diretta, raccontando dal vivo situazioni e protagonisti della vita italiana, senza esitare a mettere in piazza i retroscena più inquietanti. Come fanno «L’Europeo» dal ’45, e poi «l’Espresso» dal ’55, puntando sull’approccio diretto, sul linguaggio asciutto, senza fronzoli, tutto fatti luoghi nomi.

L’incontro più importante è quello con Vitaliano Brancati, prestigiosa firma di «Il Mondo» che – su posizioni vicine a «L’Europeo» ma con maggiore incisività politica – affronta i guasti della vita pubblica, della storica inadeguatezza dei padroni del vapore allo scempio urbanistico delle città. Lo spirito corrosivo dello scrittore catanese s’impone in Anni difficili (1948), una delle prime, amare rappresentazioni del ventennio fascista e delle traversie del piccolo borghese tratto da un suo celebre racconto. La felice collaborazione prosegue con le sceneggiature di Anni facili (1953), che ritorna al presente per mettere alla gogna la burocrazia corrotta e le nostalgiche adunate di Arcinazzo, e con L’arte di arrangiarsi (1954), ritratto al vetriolo del trasformismo di chi passa dalla monarchia al socialismo, dal fascismo al comunismo, per cercare alla fine di arricchirsi con la roulette della speculazione edilizia. Quando nel settembre ’54 Brancati scompare senza aver visto il film ancora in lavorazione, Zampa commemora lo scrittore e l’amico della tv nata da poco rievocando la bella esperienza del puntiglioso lavoro comune in cui erano riusciti a superare le differenze di formazione e di carattere. Sempre in prima fila nella battaglia contro la censura, l’anno prima avevano partecipato alla mobilitazione di gran parte dell’opinione pubblica per l’arresto di Renzo Renzi e Guido Aristarco rei di vilipendio delle forze armate per il soggetto L’armata s’agapò sulla ingloriosa avventura greca e Zampa legge pubblicamente l’articolo incriminato. Nel gennaio ’58 è tra i pochissimi cineasti che firmano la protesta contro la condanna per diffamazione che capovolge la prima sentenza nel processo della Generale Immobiliare contro «l’Espresso» che aveva denunciato il sacco di Roma.

IL DOPPIO VOLTO DEL PERSONAGGIO

Nella capacità di mescolare dramma e comicità, realtà e finzione, cronaca e spettacolo, le commedie degli anni successivi raggiungono risultati memorabili, saldando i ritmi della recitazione alla vivacità folgorante dei dialoghi. Se lavora con tutti i grandi attori dell’epoca – da Vittorio Gassman a Nino Manfredi, da Totò a Ugo Tognazzi – è con Alberto Sordi che l’intesa tra romani si approfondisce in un gruppo di film irresistibili, che sbeffeggiano con crudezza i vizi degli italiani, animando la radiografia di una società in cui i meccanismi del potere e della sopraffazione stanno superando i livelli di guardia. Il vigile (1960) registra con l’efficacia dell’entomologo e l’estro del disegnatore satirico il delirio di onnipotenza del disoccupato che riesce finalmente a indossare la divisa del vigile urbano: «Io sono vigile come Kruscev era minatore in Siberia, Mao semplice poeta e Roosevelt venditore di cravatte!». Nessuno lo tiene più, con il suo blocchetto delle contravvenzioni si sente un protagonista di primo piano, è lui che decide di soprassedere di fronte alle grazie dell’attrice famosa o di indignarsi dinanzi all’arroganza del sindaco. Se l’inizio della giornata è scandito come l’iniziazione grottesca di chi finalmente si può nascondere nel casco, negli occhialoni, nel giubbotto, pantaloni d’ordinanza, stivali, come in una seconda pelle, le sue imprese si muovono nel terreno vischioso della teatralizzazione della vita quotidiana, in cui il recente arrivo della tv sembra allargare indefinitivamente il palcoscenico. Il doppio volto del personaggio, tra spavalderia e frustrazione, prepotenza e vigliaccheria, è colto nel momento in cui anima una galleria di mostri gaglioffi in cui si annunciano i falsi miracoli del boom economico. Il film si rifà al caso di Ignazio Melone che pochi mesi prima aveva multato per eccesso di velocità il Questore di Roma, avviando tra sanzioni disciplinari e inattese rivelazioni un clamoroso procedimento giudiziario. Il pretesto di avvio si arricchisce per strada di tutta una serie di motivi e di suggestioni in cui la regia raccorda con intelligenza le trovate della sceneggiatura scritta con Rodolfo Sonego. Lo sfondo della cittadina laziale – il film è girato a Viterbo perché le autorità scoraggiano il proposito originario di ambientarlo nella capitale – rimanda comunque al quartiere o alla borgata romana di tanti altri film suggerendo il laboratorio in cui si profilano i cambiamenti sociali del decennio. Sono irresistibili i momenti che scandiscono l’ascesa di Otello Celetti, il nullafacente a carico di moglie e suocero che all’inizio va al bar in giacca da camera tra le pernacchie dei presenti fino a quando i familiari lo seguono nel suo primo giorno di lavoro e si appostano all’incrocio dov’è di servizio per ammirarlo mentre fa la prima multa con il tremendo ingorgo che ne segue. Sta a sé l’incontro con Sylva Koscina, attesa da diciotto milioni di telespettatori per partecipare a Il Musichiere di Mario Riva, un film nel film che coglie con sorprendente sapore mediologico il trionfale avvio della paleotelevisione, dalla servile piaggeria nei confronti dell’attrice che agli occhi di Otello regna sovrana tra Cinecittà e via Teulada all’imbranato gallismo con cui ci prova esibendo le furbesche smancerie del maschio in fregola, dal vanitoso narcisismo con cui si pavoneggia recitando tutto tronfio T’amo pio bove ai contraddittori contorcimenti con cui, quando vede la tv al bar, con la moglie minimizza il rapporto con l’attrice che dal piccolo schermo lo saluta e lo ringrazia prima di cantare Il tuo bacio è come un rock, mentre ai maschi presenti vorrebbe lasciar intendere che tra di loro c’è stato chissà che.

Il Vigile

SCAMBIATO PER UN PEZZO GROSSO DELLA CAPITALE

Gli anni ruggenti (1962) si misura ancora una volta con il fascismo ma con frequenti riferimenti all’oggi. Il podestà e il segretario politico spostano strutture, vespasiani, uomini, mucche per nascondere la mistificazione del regime e insieme le loro rapinose ruberie in un grottesco balletto allestito per Omero Battifiori, il mite assicuratore scambiato per un pezzo grosso della capitale in incognito, secondo lo spunto d’avvio dell’ispettore gogoliano. Non sono da meno gli altri esponenti del consiglio comunale che reggono il gioco disegnando la mappa del potere in orbace e delle sue malefatte. Le case popolari non sono mai state costruite, l’aeroporto è un inagibile acquitrino, i vicoli più miserabili vengono transennati con dentro gli abitanti, mentre di notte si riempiono i muri con le frasi mussoliniane. La carnevalizzazione del regime – la scuola con le mostruose maschere a gas, lo spettacolo di rivista che polemizza con le sanzioni, la caotica organizzazione dell’adunata, il primo colpo di piccone che finisce con il demolire l’intero edificio – non potrebbe essere più sarcastica nel demistificare l’artificiosa impalcatura con cui il fascismo occulta la realtà nazionale. Accompagnando il dottore che va a visitare un ammalato, il protagonista – un abilissimo Nino Manfredi che gioca tutto sui sottotoni – scopre il popolo delle caverne scavate sul pendio del monte e le sue disumane condizioni di vita. Soltanto quando uomini donne vecchi con i volti segnati dalla fame e dalla sofferenza gli vengono incontro per affidargli una lettera per il duce, per chiedergli di inoltrare una petizione, per caldeggiare le loro richieste, si rende conto che tutti lo credono un gerarca in missione, un’eccellenza vicina alle massime autorità. Il doppio binario del film – sempre in bilico tra verità e menzogna, realtà e contraffazione – si libera nella risata irrefrenabile del medico, l’immenso Salvo Randone, a cui senza capire si associano tutti quei poveri disgraziati. Populismo? Forse. Ma anche una sequenza strepitosa che precede lo svelamento finale in cui la garbata timidezza dell’assicuratore Manfredi si capovolge nella sferzante aggressività della denuncia.

Il medico della mutua (1968) con i suoi tre miliardi d’incasso smentisce la profezia catastrofica di Dino De Laurentiis convinto che il film non avrebbe fatto una lira perché gli italiani hanno paura delle malattie. Si prende il via dal romanzo di Giuseppe D’Agata dedicato al sistema sanitario visto dall’interno, ma la sceneggiatura scritta con Amidei si basa su una vera e propria inchiesta in grado di fronteggiare le querele. Il film coniuga con felice inventiva la vivacità della commedia che sa far ridere al momento giusto con lo spirito d’indagine del giornalismo d’assalto. L’inizio è strepitoso con il Dottor Guido Tersilli che dalla finestra guarda i passanti fermi al semaforo, soltanto una piccola parte dello sterminato esercito dei mutuati pronti a finire nel suo ambulatorio. Pochi giorni prima, distesa sulla tavola la pianta di Roma, con l’elenco dell’ordine in mano aveva deciso di dar battaglia dove c’era meno concorrenza. La madre e la fidanzata sono andate in giro nei negozi del quartiere a suggerire a alta voce il nome del dottore che ha lo studio a due passi, magnificandone la bravura e la disponibilità. Per aumentare i mutuati fino a raggiungere i grandi numeri, si adatta a fare l’assistente volontario in ospedale, dove frequenta assiduamente la cappella per farsi vedere da suor Pasqualina che lo raccomanderà ai parenti degli ammalati.

LA CATENA DI MONTAGGIO DELLA MALASANITÀ

Se all’inizio intensifica le visite a domicilio spingendosi nella periferia più disagiata dove i bambini aspettano l’inizio del programma guardando il monoscopio della Rai, solo dopo l’acquisizione delle migliaia di mutuati di un collega in fin di vita di cui ha spudoratamente corteggiato la quasi vedova, l’affluenza all’ambulatorio è tale da costringerlo a attrezzare due sale contigue in cui, assistito da uno stuolo di infermiere e collaboratori, si limita a passare velocissimo da un mutuato all’altro nei ritmi forsennati della catena di montaggio scandita dalle incalzanti marcette della colonna sonora. Sordi è straordinario. Non ha più bisogno di ricorrere all’agitato istrionismo degli inizi per delineare – vigliaccone, mammista, gattamorta – il ritratto del piccolo borghese impegnato in un’inarrestabile strategia di ascesa sociale. Sta addosso al personaggio ma insieme lo guarda crescere, tra distacco e immedesimazione, complicità e distanza. Gioca il tutto per tutto nello specchio impietoso e ghignate in cui senza volerlo siamo costretti a riconoscerci.

Sul versante della commedia di denuncia, è forse uno dei risultati più alti dell’intera carriera del regista e la conferma della sua attitudine a raccontare la società contemporanea senza rinunciare all’efficacia spettacolare né all’affondo di costume. Il suo segreto? Puntare sul resoconto comportamentistico degli avvenimenti e delle situazioni, affidandosi alla bravura dei protagonisti per far scaturire la satira dai meccanismi stessi della vita quotidiana, dal gioco dell’esagerazione megalomane, dalla frenesia del successo perseguito a tutti i costi. Il senso forte della moralità civile è il contrassegno più esplicito di un cinema che non ha bisogno del moralismo per colpire il bersaglio. Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata (1971) è forse la scommessa più alta e rischiosa perché sposta l’osservatorio dall’ambito nazionale al viaggio nell’altrove, nel mondo agli antipodi del deserto australiano, dove nella piccola comunità degli emigranti italiani sembra impossibile sopravvivere senza il salvagente della menzogna. La comicità farsesca di altri film viene qui affinandosi per caratterizzare con accenti di verità e di umanità tipi e figure del nostro tempo. Con sorprendenti colpi d’ala: quanti saprebbero rendere comico nello schermo anche un attacco di epilessia? L’incontro impossibile tra Amedeo e Carmela coincide con la scoperta di un paesaggio inedito, colto nei suoi aspetti più sfumati più che in quelli coloriti e esteriori, che si deve almeno in parte all’esperienza personale dello sceneggiatore Rodolfo Sonego. Quanto a Zampa, è abilissimo nel delineare l’incontro dei protagonisti che si respingono e si attraggono fino all’accettazione reciproca, alla solidarietà tra disgraziati, segnato dalla pietas, che potrebbe essere il punto di arrivo, l’approdo imprevisto di un cinema a volte crudele come quello del regista romano.

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