Mario Soldati: “Gira quel cinquemila”

by Orio Caldiron

Nel gennaio 1931 Mario Soldati, l’insolito working passager della nave da carico Ida della Cosulich line, alterna l’euforia allo sconforto. Scaduto il permesso di soggiorno e sfumata ogni remota possibilità di lavoro negli Stati Uniti, non ha trovato di meglio per rientrare in Italia. Se non fosse assalito dai rimpianti per quello che si lascia alle spalle e dai timori per la precarietà che l’attende in patria, il viaggio nel cargo sbattuto dalla salsedine e dalle sciabolate del sole sarebbe quasi felice, senza nessun passeggero tranne lui che, improvvisatosi marinaio, corre a piedi nudi da una parte all’altra della nave, subito adottato da un equipaggio rotto a tutto, degno delle amatissime storie marinare di Stevenson e Conrad.

Nel lungo mese attraverso l’Atlantico da New York a Trieste, il periodo della borsa di studio alla Columbia University, dove incontra Marion Rieckelman, destinata a essere la sua prima moglie, lascia il posto alla frustrazione di non essere riuscito a diventare cittadino americano ottenendo un impiego in un’altra università e all’amarezza per l’ostilità degli ambienti ufficiali italo-americani.

AMERICA PRIMO AMORE

Quando nel ’29 si era imbarcato sul Conte Biancamano, gli Stati Uniti gli sembravano quasi un miraggio, la terra promessa in cui allontanarsi per sempre dal fascismo che detestava, ma il giovedì nero di Wall Street avvelena il suo sogno americano squadernandogli davanti agli occhi l’epopea pazza e disperata del tracollo economico, del proibizionismo, dei gangster, dei bar clandestini, della disoccupazione e della miseria. Lo scenario del paese delle grandi contraddizioni, in cui avrebbe voluto vivere, si ritrova di lì a qualche anno in America primo amore (1935), singolare rivelazione di un amore contrastato, tra illusione e risentimento. Il cinema non vi ha un grande posto, ma si confonde con gli incontri a Brooklyn, i vicoli di Harlem, i pellegrinaggi nella Bowery, è una tessera della nevrosi collettiva in cui si rispecchia e si confonde.

Nel considerare il rapporto complice e viscerale che il cinema ha stabilito con il pubblico americano, non trascura il ruolo dell’industria che ha dato vita a una precisa tipologia di film basati sulla rapidità dell’azione: «Volgari, violenti, convenzionali, senza verosimiglianza, senza finezze psicologiche e fotografiche. Ma fatti, fatti, fatti. Uno dopo l’altro, che non danno tregua. Uno comico e uno tragico. Un bacio e una rivoltellata. Una preghiera e un inseguimento. Un treno di notte nella prateria e un’alba su un terrazzo di un grattacielo».

Il cinema italiano in cui al suo rientro è costretto a lavorare per vivere (l’amico di famiglia Vittorio Arton, amministratore delegato della Cines-Pittaluga, non gli può offrire niente altro) è molto diverso. All’inizio le sue mansioni non sono affatto esaltanti. Ciacchista, aiuto, segretario di edizione, si sente un forzato del cinema. Ma la mattina del luglio 1931 in cui entra per la prima in un teatro di posa si stampa indelebile nella sua memoria. Mentre nel silenzio dello studio risuona la voce dell’operatore, «gira quel cinquemila! Inclinalo! Più giù, ecco, bravo: così! Adesso il parabolico. Alza!», nell’aria arroventata dei proiettori avviene l’incontro con Mario Camerini, un numero uno della regia che sta realizzando Figaro e la sua giornata. Nel lungo apprendistato lavora anche con altri, ma è da lui, dallo schivo maestro romano-abruzzese, che a poco a poco imparerà il mestiere.

La collaborazione tra i due (Camerini ha trentasei anni, Soldati ven­ticinque) si farà sempre più viva e profonda. Il ciacchista è promosso sul campo, diventando sceneggia­tore di alcuni dei film più celebri del momento, da Gli uomini, che mascalzoni… (1932) a Il signor Max (1937).

Nel primo, l’apporto dello scrittore-cineasta è evidente soprattutto nell’ambientazione milanese, nella scelta dello scenario privilegiato della Fiera con i suoi stand, autentica vetrina della modernizzazione, che rappresenta il clima diverso del nord, dove l’in­dustria culturale sta affermandosi con le prime avvisaglie della pub­blicità di massa.

IL RAPPORTO CON CAMERINI

Il signor Max èil film cui Soldati tiene di più, rivendicando a sé la perfetta geometria della costru­zione e l’ironica raffigurazione del mondo aristocratico e alto borghese in cui il gioco del bridge è vissuto come un rito e il ma­nuale teorico pratico di Ely Culberson qual­cosa di simile al trattato sulla guerra di Karl von Clausewitz. Il gusto del futu­ro scrittore per gli azzardi del doppio si avverte già nella strepi­tosa epopea del doppio gioco im­personata dal giornalaio Vittorio De Sica, che si finge il conte Max Varaldo. La felice messa in scena della finzione è il segreto del film, sempre in bilico tra verità e men­zogna, apparenza e realtà, ma­schera e controfigura, illusionismo e svelamento.

Nel periodo della Cines, il classico incidente di percorso si chia­ma Acciaio (1933), il film ambien­tato nelle acciaierie di Terni che il regime considera il simbolo della modernizzazione del paese. Il soggetto era stato chiesto a Luigi Pirandello, che ne delega l’elabo­razione al figlio Stefano dopo avergli suggerito l’intelaiatura complessiva della storia. Nonostante l’entusiasmo dimostrato durante i sopralluoghi a Terni, negli impianti siderurgici e nelle vicine cascate dove sarà girato il film, il drammaturgo non è particolarmente interessato alla pro­posta avanzatagli dallo stesso Benito Mussolini.

Nell’occasione non erano mancate assicurazioni sull’ampia risonanza internazio­nale del progetto, né garanzie di controllo sulla sceneggiatura e sulla realizzazione dell’intero film. Ma la scelta di Walter Ruttmann come regista si rivela subi­to sbagliata perché il grande do­cumentarista non ha mai lavora­to con gli attori e ripensa la sto­ria nei termini congeniali della sinfonia visiva, infischiandosene delle esigenze narrative.

La sceneggiatura, scritta da Soldati con Emilio Cecchi, allora direttore artistico della Cines, viene conti­nuamente stravolta dal regista tedesco, che nessuno riesce a te­nere a freno. Nell’incontro finale tra Pirandello e Soldati, il dram­maturgo rimprovera duramente lo scrittore: «Credevo che avesse più rispetto per il Maestro».

Il film è un flop clamoroso, di cui paga lo scotto soltanto Soldati cacciato su due piedi dalla Cines. Se in America primo amore l’indi­viduazione del modello del cinema americano, come artigianato, organizzazione industriale e gusto col­lettivo, non potrebbe essere più lu­cida e disincantata, in 24 ore in uno studio cinematografico, il manuale pubblicato negli stessi anni, oscilla tra la guida pratica, il reportage giornalistico e il bozzetto di costume. Ma è tutt’altro che incerta nel­la tesi di fondo, che riecheggia uno slogan d’epoca: «Il cinema talvolta è arte, ma è sempre industria».

L’antica diffidenza del forzato del set è ormai esorcizzata. Ma nel mondo del cinema Soldati continua a essere considerato un lette­rato, cui si chiede di collaborare a numerose sceneggiature, mai di dirigere il film.

L’avventura delle doppie versioni, da Il peccato di Regalia Sanchez a La principessa di Tarakanova e La signora di Monte­carlo, rimanda la decisione, ma è insieme un rito di passaggio. Spro­fondato nella sedia del regista dell’edizione italiana, lo scrittore si di­verte nelle finte regie di film italo-spagnoli o italo-francesi, dove il grande impegno consiste soprat­tutto nel non fare assolutamente nulla, tranne girare con la mano sinistra qualche breve scena, qualche modesto raccordo.

FINALMENTE REGISTA

Soltanto nel 1939 riesce a vincere le resistenze dei produttori, debuttando nella regia con Dora Nelsen, ambientato a Cinecittà sul set di un film di costume, dove si diverte a rifare il verso alle con­venzioni del cinema autarchico, mentre sfida il suo amato Lubitsch sul terreno insidioso della comme­dia sofisticata. Il successo dell’esor­dio, che viene dopo il lungo tirocinio e gli alti e bassi del mestiere, gli apre le porte del cinema di qua­lità. Carlo Ponti, un milanese alle prime armi, ma destinato a diven­tare uno dei maggiori produttori italiani, gli propone Piccolo mondo antico, dal romanzo di Antonio Fogazzaro. Si entusiasma subito per il progetto, di cui intuisce le grandi possibilità anche se non ha letto il libro, uno dei preferiti di sua madre.

Le trattative vanno per le lunghe, ma resiste; per scara­manzia ha deciso di leggere il romanzo solo dopo la firma del con­tratto. Quando finalmente tutto è deciso e ha già incassato il primo anticipo, passa la notte a leggerlo, rapito e felice dell’occasione che gli è stata regalata dal destino. Il romanzo è un capolavoro. Se ne può trarre certamente un bel film, pensa Soldati mentre non riesce a fermare le lacrime. Scritta la sce­neggiatura, la lavorazione proce­de al galoppo dal settembre al dicembre 1940. Il regista confessa di non essere mai stato altrettanto duro e intransigente, sempre scon­tento e arrabbiato. Perché? La ra­gazza olandese di cui è innamora­to lo ha lasciato, travolta dalle vicissitudini della guerra. Forse per essere un grande regista bisogna essere infelici e vendicarsi dell’amarezza che si sente dentro, tor­mentando attori, operatori, elettricisti, montatori.

Quando esce, nell’aprile dell’anno successivo, Piccolo mondo antico conquista subito il pubblico, diventando uno dei maggiori successi dell’intero periodo. La critica non si lascia sfuggire la novità di un film girato tutto in ester­ni, che per la prima volta va alla scoperta del paesaggio italiano.

Sono tutti d’accordo nell’applaudire Alida Valli, che presta alla protagonista la scontrosa freschezza di una “mula” triestina di diciannove anni. Il pubblico si in­namora della giovanissima attrice, che non vuole saperne di essere considerata una diva. Se ne innamora probabilmente anche Ma­rio, che soffre per la sua olandesina e non ne vuole tradire il ricor­do. Soltanto in un racconto degli anni settanta, osa rievocare, tra sogno e realtà, l’enigmatica offer­ta di Alida, il suo incomprensibile rifiuto, il suo sconcertante trasali­mento. Ma l’eterno innamorato di un «fantasma di celluloide» che non ha toccato nemmeno con un dito, è ormai un vecchio regista in pensione, deciso a conservare per sempre il segreto.

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