Pupi Avati, l’horror e la paura creativa. “Eravamo produttori di immaginario, riempivamo il buio”

by Antonella Soccio

Una intensa chiacchierata di cinema, bella come una lunga sceneggiatura di vita su un set d’autore, ha rapito quanti, nell’ambito del Foggia Film Festival di Pino Bruno e Maurizia Pavarini nell’Auditorium Santa Chiara sostenuto dall’assessorato alla Cultura di Anna Paola Giuliani, hanno deciso di ascoltare il grande regista Pupi Avati, intervistato dal giornalista e scrittore Tony Di Corcia.  

Dall’incontro magico e provocatorio con Federico Fellini, che ha nutrito l’avventura di tanti autori sessantottini agli aneddoti e al flusso di eventi dei suoi tanti indimenticabili film, dal più poetico Storia di ragazzi e di ragazze, fino all’ultimo, col ritorno al genere horror, lo splendido Signor Diavolo.  

Cos’è la vita? Per Pupi Avati è una collina, come nella cultura contadina, da scalare convinti con sfrontatezza, in giovinezza, che una volta arrivati in cima tutto si realizzi, ma che poi nella seconda fase dell’esistenza finisce per scollinare. La vita è una collina e una ellissi, dalla salita del bambino per il quale il tempo è un infinito presente a quella dell’adulto fino alla “cerimonia degli addii” tra il proprio io e il fisico, col disapprendimento della vecchiaia e alla nostalgia del “bambino che sei stato”.

“La vulnerabilità è la qualità massima di un essere umano, le persone che hanno sofferto, le più inadeguate, quelle che hanno patito, quelle che hanno una voglia di essere risarcite sono i migliori attori. Non devi chiamare un attore nel massimo del successo, ma nel momento della loro vulnerabilità”, ha confessato.  

Pupi Avati è un grande affabulatore, il suo racconto riesce a toccare tutte le corde della conoscenza e della sensibilità: commozione, riso, curiosità intellettuale. Per più di un’ora e mezza Avati ha detto di sé, del cinema prodotto e di quello che lo ha attraversato, per il tramite dei colleghi e dei tanti attori che ha amato e che ha portato al successo o “salvato” dall’oblio. Come Diego Abatantuono, disseppellito dal night di Rimini, Lady Godiva, dove si era rifugiato, e che lui chiama per fargli interpretare Regalo di Natale, un “film di recupero”, al posto di Lino Banfi, all’ultimo momento attratto da un numero della saga di Pompieri, o Katia Ricciarelli venuta fuori da una serata di sbornia alla ricerca di una attrice, che non fossero le “solite” monumentali Stefania Sandrelli o Virna Lisi, per il ruolo della vedova in La seconda notte di nozze. E ancora Sharon Stone, che “produce un distacco che malgrado sia bella non è attraente”. Carlo Delle Piane, l’ex dodicenne più brutto di Roma, che gli ha donato l’interpretazione mirabile del professor Balla in Una gita scolastica e che quando il loro rapporto si usurò perché non c’erano più sorprese, si inventò una malattia e una vita di cliniche perché nessun regista lo fece più lavorare neppure Fellini. “Come faccio a prendere un attore che è così tanto tuo?”. Infine Lucio Dalla, la cui amicizia jazz e invidia per il suo talento nel clarinetto, Avati ha raccontato tante volte in innumerevoli interviste. “La ricerca del talento è come il graal, non è sufficiente la volontà. Ho conosciuto altre persone geniali, ma Lucio è una delle persone più straordinarie della mia vita”.

 “Nella mia prima infanzia ho vissuto in campagna, sfollato per la guerra, a Sasso Marcone, con mia madre e le mie zie. La sera avevamo solo le favole orrorifiche e spaventevoli, una di queste riguardava un cimitero, le cui tombe e cadaveri erano state riesumati ed era uscito un vecchio parroco, che si scoprì era in realtà una donna. Da qui le minacce del prete donna, con la vocina, le unghiette. Il prete preconciliare era spaventevole, lo si chiamava quando qualcuno stava morendo. Ci dicevano: attenti bambini che viene il prete donna! E noi avevamo una paura da morire. Andavamo a dormire nei nostri letti all’addiaccio in quel buio della campagna che non c’è più. Ma come ca..o fai a dormire se viene il prete donna? Essere cresciuti ed educati nella paura ha significato per il nostro immaginario riempire il buio. Tu diventi produttore delle tue paure, non fruitore. La paura ha una seduttività misteriosa, come la religiosità preconciliare. Da lì nasce La casa dalle finestre che ridono. Sono nato in un mondo in cui la dismisura esondava la realtà. A questa educazione sono grato”.

Sul genere horror, dopo la proiezione de Il Nascondiglio e prima della lunga chiacchierata pubblica festivaliera, noi di bonculture abbiamo avuto il privilegio di rivolgere qualche domanda a Pupi Avati.

L’horror sta tornando? I giovani ne sono molti attratti e riempiono le sale come nessuno si aspetterebbe. Hanno molto amato il suo Signor Diavolo e The Nest di Roberto De Feo, diventato un piccolo caso al botteghino.

I giovani sicuramente amano moltissimo l’horror come lo amavamo noi da giovani, ma amano l’horror che viene da Oltreoceano, l’horror asiatico, un horror nordamericano, hanno una qualche diffidenza per l’horror italiano, nel mio caso cinema gotico, gotico padano dice qualcuno, ma è la stessa cosa, perché li abbiamo diseducati al fatto che anche in Italia si possano fare dei film, come direbbero a Roma “de paura”. Stiamo cercando di recuperare una situazione che era straordinaria negli anni Settanta/Ottanta ai tempi di Argento, Deodato, Fulci, di tutti questi registi che sono riusciti ad esportare i loro film nel mondo e che adesso non si fanno più.

In Italia c’è un recupero dei generi, in questo momento, anche con i poliziotteschi e il crime?  

Me lo auguro, perché la commedia sola, tout court, mi sembra che non sia all’altezza di fronteggiare la grande forza d’impatto del cinema americano, che ormai per il 99% dei casi occupa ed ingombra le sale cinematografiche italiane.

La paura è un elemento che facilita e accresce la creatività?

Sì, ho sempre pensato questo, che la paura sia un elemento della creatività, noi siamo stati educati, spaventati dalle favole contadine e da una cultura anche cattolica preconciliare che era veramente spaventevole. Disponevamo di un immaginario che non è lo stesso immaginario dei giovani d’oggi che acquistano immagini da Silicon Valley, sono fruitori di immaginario più che produttori di immaginario.

Che importanza ha la provincia nel cinema? La sua pianura padana o anche le nostre del Sud sono luoghi che producono immaginario?

La provincia, secondo me, ha perso completamente le sue peculiarità perché tutte le province cercano di non esserlo. Stanno rifiutando il loro ruolo, che considerano marginale erroneamente, e tutta la tipicità della provincia si sta andando in qualche modo a dissolvere in una omologazione e in un modo di essere occidentali molto molto omologato e privo di quella identità, di quella forza, di quella personalità che invece, come descrivo nel mio ultimo film ambientato nel 1952, era peculiare. La provincia era un punto di debolezza e di forza di una grande identità, adesso questa grande identità la provincia non ce l’ha più.

(tutte le foto sono gentilmente concesse da Gabriella Russo)

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