Control, il biopic su Ian Curtis, i Joy Division e l’inquietudine esistenziale della new wave, che merita di essere rivisto e rivalutato

by Claudio Botta

Il grande successo di Bohemian Rapsody prima, di Rocketman poi, ha fatto riesplodere l’interesse da parte di produttori e pubblico per i biopic dedicati a stelle della musica (anche se l’ultimissimo, Elvis, non è stato premiato nella notte degli Oscar come ci si sarebbe aspettato dopo il successo al botteghino). Noi facciamo un passo indietro nel tempo e vi segnaliamo (visibile su Prime Video) un piccolo gioiello firmato da Anton Corbijn, talentuoso fotografo olandese che ha dedicato una vita alla sua passione, il rock, attraverso ritratti e videoclip memorabili (per Nirvana, U2 e Depeche Mode in particolare) e che nel 2007 ha diretto il suo primo lungometraggio, Control, presentato al festival di Cannes e dedicato a Ian Curtis, il leader dei Joy Division, band entrata nella storia con appena due album pubblicati e che ha aperto gli anni Ottanta a nuove sonorità e atmosfere, lontanissime dalla leggerezza imperante o semplicemente presunta.

Interamente girato in bianco e nero, il film è un omaggio, delicato e struggente, a un ragazzo affascinato da miti come David Bowie (nella prima scena, ascolta infatti nella sua camera Alladin Sane, appena uscito, e sogna a occhi socchiusi un futuro simile, come gran parte degli adolescenti del Regno Unito), nato in un soggiorno di Manchester e che a diciassette anni si dedicava al servizio civile e a lavori occasionali come quello all’ufficio di collocamento di Macclesfield, dove la sua famiglia si era trasferita. Dotato di grande fascino, talento e sensibilità, Curtis (ottimamente interpretato da Sam Riley) viene raccontato nelle sue fragilità e contraddizioni e non soltanto nella folgorante ascesa.

L’improvvisa comparsa dell’epilessia fotosensibile, che cercava di esorcizzare con un modo di stare sul palco insolito e che diventò compagna feroce e inesorabile del suo breve viaggio, nonostante farmaci su farmaci e uno stile di vita agli antipodi con una salute così precaria. L’amore improvviso per Deborah (Debbie) Woodruff (una intensa Samantha Morton), il matrimonio il 23 agosto del 1975, 19anni lui, 18 lei, la nascita della figlia Nathalie quattro anni dopo: tutto troppo in fretta, troppo giovani loro per tenere fede a un ‘per sempre’ così impegnativo. L’incontro con la giornalista/groupie belga Annik Honoré (la brava Alexandra Maria Lara), che fa esplodere il suo equilibrio già precario e segna l’inizio di una vita parallela, in giro per concerti insieme – accettata dal resto della band – e poi il rientro a casa nella sua famiglia, prigioniero di tormenti, sensi di colpa, dubbi, incapace di essere davvero felice e realizzato, e soprattutto coerente; di scegliere, consapevole delle ferite inferte ma anche e soprattutto di pagarne un prezzo altissimo in prima persona. Un’inquietudine esistenziale che proietta nelle canzoni, scritte per la band formata da tre compagni di scuola folgorati da un concerto dei Sex Pistols a Manchester nel 1976, nella quale entrò come cantante determinandone il cambio del nome (da Stiff Kittens a Warsaw e finalmente a Joy Division, scelto da Curtis ispirandosi al romanzo La casa delle bambole: il nome indicava le sezioni dei lager nazisti in cui le donne prigioniere erano costrette a dedicarsi all’intrattenimento sessuale dei loro carnefici). Testi nei quali i suoi fantasmi acquistavano una dimensione onirica e angosciante al tempo stesso, esaltati dalle musiche di estrazione post punk ma dall’ambientazione decisamente dark di Bernard Sumner (chitarra e tastiere), Peter Hook (basso) e Stephen Morris (batteria e percussioni) che conquistarono sin dagli esordi un numero sempre maggiore di fans, concerto dopo concerto nei circuiti underground. L’incontro con il manager Martin Hannett diede una cornice ancora più professionale ad energie così contrastanti, inquietanti e affascinanti al tempo stesso, e produsse singoli di grande impatto emotivo e l’album d’esordio, Unknown Pleasures (15 giugno 1979), manifesto del gothic rock e della new wave, la cui copertina è entrata nella storia della musica (realizzata da Peter Saville, il grafico della casa discografica indipendente Factory Records fondata dal musicista Tony Wilson, che riprodusse un’immagine tratta dal volume The Cambridge Encyclopedia of Astronomy la quale rappresentava una serie di onde elettromagnetiche prodotte dalla prima pulsar, invertendone i colori dell’immagine).

Ma la prima, grave crisi epilettica con convulsioni spaventose dopo un concerto all’Hope and Anchor Pub di Londra (il 27 dicembre 1978) ebbe l’effetto di amplificare la sua depressione, e l’impossibilità di gestire una pressione sempre maggiore, schiacciato dalle responsabilità verso le donne della sua vita, i suoi compagni, i manager, il pubblico. Le troppe date a distanza ravvicinata del tour promozionale nel Regno Unito e nord Europa, una fuga insostenibile e ingestibile per lui, nonostante l’attenzione dei media e le lodi della critica. La produzione di nuovo materiale, sempre più autobiografico, compreso la struggente e trascinante Love Will Tear Us Apart (diventerà l’epitaffio sulla sua tomba), negli anni giudicata tra i migliori singoli di tutti i tempi, l’unica nella quale suona anche la chitarra e nel film si può ascoltare con una registrazione d’epoca, insieme ad Atmosphere, mentre le altre sono cantate e suonate dagli attori. Il finale drammaticamente già scritto, annunciato da due precedenti collassi provocati da overdose di alcol e farmaci, è purtroppo il suicidio nella notte del 18 maggio 1980, ad appena 23 anni, nella cucina della casa al civico 77 di Barton Street (da allora meta di pellegrinaggio di fans da tutto il mondo) dove aveva vissuto con Debbie e la loro bambina. Ultimo disco ascoltato, The idiot di Iggy Pop, ultimo film visto in televisione La ballata di Stroszek di Werner Herzog. Il giorno dopo sarebbe dovuto partire per gli Stati Uniti, dove i Joy Division erano attesissimi. E il secondo album, Closer, sarebbe uscito postumo e avrebbe rappresentato la loro consacrazione, trascinando anche il precedente sia dal punto di vista commerciale, che nell’influenza su intere epoche e generazioni.

Un finale che lo accomuna a tante leggende prematuramente scomparse, ma lontano dallo stereotipo dall’artista maledetto, la rockstar vittima dei suoi vizi e dei suoi eccessi. Centrale diventa l’ambientazione di riferimento, grigia e noiosa (e la scelta del bianco e nero si rivela ottima per renderla pienamente), la sensibilità nella narrazione (ispirata in parte dal romanzo autobiografico della moglie di Curtis, Touching from a distance) e la straordinaria interpretazione di Riley, che restituisce al mito tutta la sua umanità e la sua semplicità, senza alcun autocompiacimento divistico e toni epici fuori luogo. Un bellissimo lavoro fatto con amore e rispetto, con un low budget cui ha contribuito – tra gli altri – anche Martin Gore, anima dei Depeche Mode di cui da decenni Corbijn è un fedele compagno di avventura. Da vedere e rivedere. Per capire quello che si può provare “When routine bites hard /and ambitions are low/ and resentment rides high/ but emotions won’t grow/ and we’re changing our ways/ taking different roads. Then love, love will tear us apart again/ love, love will tear us apart again” (“Quando l’abitudine logora/ e le ambizioni affondano/ e il risentimento aumenta/ mentre le emozioni non crescono/e noi cambiamo tragitto/ imboccando direzioni differenti/ Allora l’amore, l’amore ci farà ancora a pezzi/ l’amore, l’amore ci farà ancora a pezzi”) e quanta sofferenza possa generare altrettanta, immortale bellezza.

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