Il bambino nascosto: fra i Quartieri Spagnoli e la Francia l’elegante messa in scena di Roberto Andò

by Gabriella Longo

Fra vicoli puntellati da edicole sacre svetta un condominio antico e dismesso. Una carrellata verticale, dal basso verso l’alto, ce lo presenta dall’esterno: siamo nel quartiere Forcella, in una Napoli non ordinaria, silenziosa e astratta.

Nulla restituisce l’idea della capitale del sole e del chiasso, per quanto è catturata in una innaturale desolazione e nel ruolo di assoluta preminenza che invece vanno rivendicando gli edifici. La palette cromatica vira ai freddi, la macchina sposta l’interesse dalle masse a pochi scampoli d’umanità, non di rado relegata ai margini della società e delle inquadrature, come raccontano i tristi ed eleganti décadrage. Un senso generale di pulizia, non solo formale, regna sovrano sin dall’inizio quando cogliamo Gabriele Santoro (Silvio Orlando) in un appartamento di quel palazzone, intento a radersi nel suo bagno, mentre declama a memoria i versi di una poesia. È Itaca di Kostantinos Kavafis il poema del giorno di cui Gabriele recita quasi tutto perfettamente, proprio come fosse l’attore che prepara allo specchio il suo ingresso in scena e dopo che un’ “ouverture” al pianoforte ha già introdotto il cast e le maestranze de Il Bambino Nascosto. Scritto e diretto da Roberto Andò (anche autore dell’omonimo romanzo edito da La Nave di Teseo), è nelle sale dal 3 Novembre.

Una partitura, di pieni e di vuoti, con qualche contrappunto a scandire un ritmo che ad un tratto si spezza. Come nella musica o come sulla ribalta. Lo sa bene Andò – già regista e sceneggiatore teatrale – affida alla sapienza di Orlando il ruolo “scenico” di Gabriele, il maestro di musica al conservatorio di Napoli, pirandelliano nelle sue nevrosi e nei suoi piccoli ed immancabili esorcismi quotidiani contro la solitudine e la noia. Lo sono, appunto, la rasatura, i pasti preparati con cura, le lezioni al conservatorio e quelle private ad un’allieva scoraggiata dall’asprezza dell’insegnante. Un refrain che si ripete ogni mattina dentro una casa fatta di pianoforte, libri e spartiti, poemi detti a voce alta, con affaccio su un mondo che, chiaramente, non parla quella stessa lingua. Ma gli affari di Gabriele gli appartengono, come le ragioni della sua solitudine nel rione meno adatto ad esserlo per davvero. E infatti un bel giorno il bambino del piano di sopra gli si infila dentro casa mentre la porta è aperta per un corriere. L’intruso si nasconde, agli occhi di Gabriele e, fattivamente, ai nostri di spettatori perché per un po’ non ci è dato conoscerne il volto.

Poi svela, a lui e quindi anche a noi, l’identità di uno scugnizzo di dieci anni del piano di sopra, col collo incassato, fare difensivo e la paura negli occhi: “tu m’haje ‘a nasconnere”.

Sono chiari a Gabriele i legami di Ciro (così il nome del ragazzo interpretato da Giuseppe Pirozzi) con la camorra, più avanti confessati spontaneamente dal bambino che ha scippato, senza saperlo, una matriarca dei vertici e che adesso è in cerca di protezione da quell’unico strambo abitante del condominio fuori dal giro come da ogni giro socialmente inteso. Di tornare a casa sua Ciro non ne ha voglia. Di denunciare la sua scomparsa alle autorità Gabriele non ne ha il coraggio. Ma sarà quello strano senso di giustizia che lo ha portato a paragonarsi ad Antigone difronte al fratello magistrato, rifiutatosi di aiutarlo in questa faccenda, a fargli apparire chiaro il destino, in sciagurato in ogni caso, del ragazzo. E a decidere di aiutarlo, nasconderlo, proteggerlo, sostituendosi alla giustizia e alla famiglia d’origine, in pratica scegliendo l’amore alla legge, come sentenzia l’anziano e saggio padre ex docente di filosofia (qui interpretato da Roberto Herlitzkain un cameo che più “teatrale” non ce n’è).

Insieme allo scrittore Franco Marcoaldi, Andò fa uscire la storia dalle pagine del romanzo creando un’opera ad esso complementare. Sul grande schermo la partitura si fa polifonica, il monologo diventa dialogo e la logica di sguardo da “monopuntuale”, duplice. Il racconto, che nel libro era affidato esclusivamente a Gabriele, adesso si fa a anche misura di bambino. Sintomatiche le scene in cui Ciro “spia” dal suo piccolo rifugio sulla libreria il salotto e gli incontri del maestro. O quella in cui, di sera, sgattaiola nel letto di Gabriele addormentato perché ha paura del buio. L’indomani mattina, invece, Gabriele è il primo a svegliarsi e a guardare, commosso e intenerito, il bambino disteso al suo fianco con i pantaloni del pigiama bagnati. Del resto, Gabriele cercava un antidoto alla noia, Ciro protezione; entrambi una forma d’amore che curasse il loro deserto affettivo. La materia narrativa viene rimaneggiata anche in molti dettagli di trama. Il maestro fa un passo indietro e anziché educarlo al piano, lascia spazio al piccolo Ciro perché gli declami e gl’insegni i versi di una canzone che invece piace a lui: “nun teng paur e nisciun”. Anche se il protagonista resta sempre lui, il vecchio maestro che, riprendendo la quarta di copertina del libro di Andò, ha conosciuto l’amore in “una sconcertante varietà di forme impreviste”.

Un’eccessiva dilatazione aneddotica, in certi casi più dispersiva che funzionale (come quella dell’appuntamento di Gabriele), è comunque sempre rinfrancata da una regia elegantissima che dissolve e reinterpreta Napoli quasi fosse la Parigi nebbiosa e autunnale dei ladruncoli di Truffaut. E se è vero che per il “giovane turco” la messa in scena era una «questione di morale», lo è anche per Andò, che consegna letteralmente i suoi personaggi, sempre più complici nel gioco e nella colpevolezza, ad una fuga dagli aguzzini e da qualunque forma di giudizio. Sentenziare sui “colpi” di Ciro e di Gabriele non sembra interessargli, ma è chiaro il procedimento d’identificazione soggettiva con il protagonista messo in atto dalla regia: i primi piani strettissimi, intenzionati a scrutare il volto espressivo di Orlando costringono ad assolverlo almeno nel processo con lo spettatore. Da un movimento di macchina ascendente sull’edificio partenopeo ad uno che si allontana e li lascia scrutare il panorama oltre frontiera. Al mare francese finisce la loro corsa cinematografica, con uno sguardo liberatorio solo in apparenza ma che, nel profondo, preannuncia il calvario di più d’uno e l’iter che necessariamente seguirà la giustizia, questa volta, lontano dai nostri occhi.

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