“Il Buco”: il fanta-horror distopico sull’ingordigia dell’animo umano spopola su Netflix in quarantena

by Nicola Signorile

Homo homini lupus. La sopraffazione tra uomini è un istinto naturale? Una domanda a cui filosofi, studiosi e pensatori di tutti i tempi hanno cercato di dare una risposta.  Oscillando tra ottimismo e pessimismo sulla natura umana, l’interrogativo è giunto fino a noi senza trovare univoche certezze. In occidente come in Oriente le disuguaglianze sociali restano profonde, anzi la forbice si allarga sempre di più, con la ricchezza sempre più concentrata in pochissime, voraci, mani.

I film di genere, specialmente horror e thriller, oggi sembrano saper fotografare lo stato  dell’arte socio-politico con maggiore efficacia rispetto al cinema di impegno vero e proprio. Una new wave erede delle metafore anti-omologazione consumistica e capitalistica che ispirarono i capolavori post-sessantottini del genere creati da Tobe Hooper, George Romero, John Carpenter e Wes Craven. In questi anni non sono solo gli Stati Uniti a ripercorrere le strade del terrore e della suspense per affrontare i nodi irrisolti del presente. In Usa Jordan Peele prima con Scappa – get Out, poi con il politicissimo Us – Noi detta la linea.

Ma anche la saga de La Notte del giudizio racconta molto, senza andare troppo per il sottile, le paure e le angosce securitarie della società contemporanea. Di tutt’altro spessore il cinema del coreano Bong Joon-Ho, assurto alla fama globale grazie a Parasite, ma che già con Snowpiercer aveva saputo mettere a punto una riflessione sulle differenze di classe mascherata da divertissement fantasy. Deve molto al film con Chris Evans e John Hurt, Il Buco, fanta-horror distopico spagnolo (El Hoyo in originale, in inglese The Platform ) opera prima di Galder Gaztelu-Urrutia, passato in concorso al Torino Film Festival e da qualche giorno disponibile su Netflix. Un film sulla bocca di tutti, si direbbe; mentre scrivo è la seconda produzione più vista su Netflix Italia (dopo solo la nuova serie, assai meno disturbante, Freud). Uscito con un incredibile tempismo certamente. Non un film perfetto, né un capolavoro, ma il più adatto agli interminabili giorni di quarantena. La componente claustrofobica infatti è uno dei tratti fondamentali di questa piccola opera iberica che nello streaming trova il suo luogo ideale, considerato che difficilmente avrebbe avuto una buona distribuzione in sala.

La trama è molto semplice: una prigione verticale con celle disposte l’una sotto l’altra, ciascuna delle quali “ospita” per un mese due persone. Alla fine di ogni mese i detenuti si ritrovano su un piano diverso. Nel mezzo della cella c’è un buco attraverso cui scende ogni giorno una piattaforma ricolma di ogni leccornia, da consumare entro due minuti prima che scenda al piano inferiore. Di cibo ce ne sarebbe abbastanza per tutti, anche se i reclusi non possono sapere quanti siano i piani della terrificante galera. Sanno solo che, quando per esempio si trovano al livello 177, come succede al protagonista Goreng, sulla piattaforma non troveranno più nulla di cui sfamarsi. Si è parlato molto del film già a novembre 2019 quando fu presentato e apprezzato a Torino. Oggi, arriva nelle case di tutto il mondo (enorme colpo di fortuna o furbata?) nel momento in cui la pandemia si propaga velocemente e un quinto della popolazione mondiale è già costretta a restare in casa.

L’ingordigia di chi sta ai piani alti mette a rischio la sopravvivenza di chi abita quelli inferiori: il senso dell’allegoria di El Hoyo è fin troppo evidente. Una distopia grottesca che ci mostra al livello 0 uno chef con la sua brigata imbandire ogni giorno un banchetto luculliano, con tanto di escargot, aragoste, enormi torte, frutta fresca, attraenti dessert. Ce ne sarebbe per tutti, ma in attesa di mesi bui, meglio abbuffarsi ingurgitando tutto il possibile nei due minuti a disposizione. Tra La grande abbuffata di Marco Ferreri a  Luis Buñuel, il cibo è un dio tiranno, causa di sopravvivenza,  oggetto del desiderio, simbolo di opulenza al principio della discesa, visione mortifera, nella sua sconsolante assenza, ai piani inferiori, delizioso e disgustoso al tempo stesso. Non dilungandosi troppo sulla trama del film, già recensito da Bonculture, è forte per tutti gli spettatori in forzato isolamento la tentazione di riconoscersi nel malcapitato protagonista, peraltro autocondannatosi a sei mesi di reclusione da incubo.

Le giornate interminabili in uno spazio ristretto, l’esigenza di procurarsi il cibo come unico pensiero quotidiano, la ribellione al sistema che pian piano fa breccia in un muro di noia, la ricerca di una comunicazione con i “coinquilini” del piano di sopra o di sotto (in fondo organizzandosi, potrebbero spuntarla tutti), la ricerca di quel senso di comunità, smarrito chissà dove. El Hoyo lavora per accumulazione, affastellando riferimenti altisonanti da Il Condominio di J. G. Ballard a Cecità di Saramago e Franz Kafka, dal già citato Snowpiercer a David Cronenberg e Cube di Vincenzo Natali, uno dei certi progenitori del film, per la sua impronta stilistica. Senza dimenticare parentele horror come Saw l’enigmista o i grandguignoleschi francesi Frontiers o Martyrs che nella seconda metà degli anni Duemila sdoganarono ogni efferatezza sul grande schermo; una china che il film percorre convintamente con atti di cannibalismo, sangue, crudeltà e defecazioni.

Da non dimenticare che per Galder Gaztelu-Urrutia è la prima volta dietro la macchina da presa, quindi gli si perdonerà un certo eccesso di didascalismo nelle metafore malcelate dietro immagini e personaggi, persino dietro l’unico oggetto scelto da Goreng da portare nella prigione: non armi, ma una copia del Don Chisciotte, il romanzo sull’hidalgo che lotta contro i mulini a vento, come sembra fare a un certo punto lo stesso protagonista, che passa da uno stato di ribellione spontanea all’assuefazione, dallo sconforto alla riflessione, poi di nuovo all’azione solidale sì, ma supportata da una massiccia dose di violenza deterrente. E poi, il finale non all’altezza di El Hoyo dà l’idea di qualcosa di incompiuto, di una narrazione tanto interessata al discorso di classe da dimenticarsi di trovare un epilogo convincente. Peccati veniali per una visione comunque molto godibile che, da spettatori amanti del cinema di genere, ci fa ben sperare per il futuro di Galder Gaztelu-Urrutia. E che per una fortunata coincidenza di eventi, oggi diventa una proiezione della quarantena globale. Il film giusto al momento giusto.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.