Il Buco (El Hoyo), l’inferno utopico e multilivello di Galder Gaztelu-Urrutia

by Giuseppe Procino

Goreng si sveglia con Trimagasi, un misterioso vecchietto, al trentatreesimo livello di un posto che ricorda un carcere. Al centro della loro cella, una piattaforma scende con il pasto: una tavola imbandita su cui rimane il cibo lasciato dagli inquilini dai livelli più alti.  Trimagasi conosce le regole che governano questo luogo misterioso: due persone per cella e un numero imprecisato di livelli. 

Se vai in alto sopravvivi se finisci troppo in basso, morirai di fame. Tra Beckett e Pinter, un po’ the cube di Natali, un po’ inferno dantesco, un po’ ( osservato da lontano) Saw l’enigmista: l’opera prima di Galder Gaztelu-Urrutia si presenta come un rompicapo che mischia in maniera sbalorditiva suggestioni e influenze.

Il mondo minimale de “El hoyo”, si presenta come un universo distopico brutale e assurdo, allegoria  del tempo presente senza pietà alcuna. La piattaforma offre a tutti le stesse possibilità, dettate esclusivamente dal caso, oggi ai primi piani, domani agli ultimi, arbitrariamente, come un sistema che distribuisce in maniera sbilanciata le risorse.

Il quadro che viene restituito allo spettatore è un mondo che si presenta come utopia al contrario che può fermarsi solo sopendo gli impulsi individuali. In questo inferno scarno, gelido, in cui i personaggi portano tutti la macchia indelebile del peccato contemporaneo, ogni elemento è simbolo della propria vera anima, tra chi porta con sé un libro, chi del denaro, chi un coltello.

Il regista basco offre così, attraverso l’eccesso di fluidi corporei, carne, violenza, una dimensione di controllo orwelliana in cui esiste la differenza tra scelta e imposizione tra chi, guidato dal libero arbitrio, decide di prendere parte a questa giostra infernale in cambio dell’emancipazione e chi deve espiare le proprie colpe, entrambi sullo stesso livello, tra chi sale e chi scende. 

In questa bolgia dall’impianto assolutamente teatrale (anzi assurdamente teatrale) che deve tantissimo al Pinter crudele de “il Calapranzi” o del “bicchiere della staffa” emerge una speranza che resta sospesa come ipotesi, tra delirio onirico e lucida visione.

El Hoyo è la pellicola più politica ma anche quella dalla filigrana più commerciale tra i film  visti sino ad ora nella competizione ufficiale del trentasettesimo Torino Film Festival, un attacco efficace al sistema sociale e alla lotta di classe mostrando i limiti del socialismo e soprattutto del capitalismo, esaltando la natura individuale e individualista dell’essere umano, vera causa della condanna. 

El hoyo non sarà di certo perfetto, ma ha tutte le caratteristiche per diventare cult movie e ha il pregio di sforzarsi, all’interno della sua natura da film di genere, di essere diverso, di veicolare una riflessione durissima e premonitrice. Miele dunque sul bordo del bicchiere che contiene l’amara medicina, magari un digestivo dopo il pasto indigesto. 

Scritto bene (nonostante alcuni piccoli buchi nella trama), per nulla didascalico, recitato in maniera convincente, per chi è curioso e non potrà approfittare del passaggio sul grande schermo di questo Torino Film Festival, Netflix nei prossimi mesi si occuperà della distribuzione.Il ritmo è stabilmente serrato, asfittico, disturbante, angosciante. Funziona.

Il regista a Torino


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