La Belva, un inedito e tostissimo Fabrizio Gifuni nel film di Ludovico Di Martino

by Nicola Signorile

Un inedito Fabrizio Gifuni tutto muscoli e rabbia repressa è la forza motrice de La Belva, film di Ludovico Di Martino, prodotto dalla Groenlandia di Matteo Rovere con Warner Bros Pictures e disponibile su Netflix dal 27 novembre.

Leonida (il nome del condottiero spartano gli calza a pennello) Riva è un reduce, ex capitano delle Forze Speciali dell’Esercito, uomo cupo, solitario. Vive ai margini della società, lontano da tutti, compresi la moglie Anna (Monica Piseddu) e i figli, il maggiore, Mattia (Emanuele Linfatti) che ha sofferto la sua lontananza e non lo ha mai perdonato e la piccola Teresa (Giada Gagliardi), l’unico essere umano a cercare ancora la sua vicinanza. É la sua scomparsa ad innescare la Belva, l’oscuro passeggero che tutti portiamo dentro, come insegnava Dexter,  e che il veterano ha sepolto nel passato, anche grazie al massiccio uso di tranquillanti.

La Belva è un action italiano: la definizione già ne fa un prodotto atipico. Un film che guarda soprattutto ai modelli seriali e cinematografici internazionali, a quello che funziona e cattura l’attenzione del pubblico anche all’estero. I primi giorni di programmazione sembrano supportare l’operazione: mentre scrivo La Belva è il film più visto su Netflix nel mondo.

Di Martino, romano qui all’opera seconda, già regista dell’ottima terza stagione della serie Skam e di numerosi videoclip musicali, dimostra che anche in Italia si possono realizzare degnissimi prodotti di genere. Mano sicura, un paio di sequenze adrenaliniche molto riuscite, buon dosaggio di azione e sentimento. Certo, alcuni personaggi sono appena abbozzati e andavano meglio sviluppati come la moglie di Riva e il vicequestore Simonetti (Lino Musella), cui spetta l’indagine sul rapimento  della bambina.

Produttivamente italiano, ma volutamente privo di riferimenti alla realtà del nostro paese, anche attraverso le scelte di fotografia, scenografia e costumi; girato per le anonime strade di una Roma notturna travestita da metropoli qualunque, in non luoghi come ospedali e fabbriche abbandonate che diventano teatro di feroci corpo a corpo e stalli alla messicana. Una scelta che, se rende l’operazione perfettamente fruibile dal pubblico di tutto il mondo, la priva di un carattere identitario fondamentale che l’avrebbe resa originale. In questo modo si inserisce in un filone molto frequentato (all’estero) e da produzioni dai budget incomparabili, senza aprire una nuova strada per il cinema italiano, come ha fatto, per intenderci, Lo chiamavano Jeeg Robot.

Come l’orso che porta sul giubbotto, Leonida Riva, fiutata la preda, non si ferma davanti a nulla. Per lo più muto, come il Ryan Gosling di Drive che aveva invece uno scorpione sulla giacca. Ma con la stessa furia vendicativa. Dopo trent’anni di missioni in Somalia, Iraq, Bosnia, Rwanda, la psiche del nostro è dilaniata dai traumi della guerra, che riaffiorano in episodici flashback delle torture subite in Afghanistan. La ricerca porta a un villain fumettistico soprannominato Mozart, un po’ il classico mafioso russo però con l’accento veneto di Andrea Pennacchi. Peccato che la sua sia una fugace apparizione, avremmo voluto vederlo di più in scena.

Il grande attore è capace di andare al di là del copione, di far intravedere un vissuto sofferente, di incarnare traumi e notti insonni, i silenzi che scavano abissi in una famiglia e la voglia di ricucire il legame con il figlio, al quale dovrà chiedere aiuto nella corsa disperata per salvare Teresa.

Fabrizio Gifuni è perfettamente calato nei panni del vendicatore nerboruto, impasticcato, grande incassatore di colpi, come ogni eroe  action che si rispetti, in grado di muoversi nell’ombra come un ninja e di asfaltare nemici come un tank corazzato. Il film pulsa di vita vera quando in scena c’è l’attore romano per la prima volta alle prese con un ruolo del genere; è la sua sensibilità attoriale a dare spessore e un tocco di complessità al tutto. Leonida Riva è un orso grosso e cattivo dal look ben studiato che è già icona (attendiamo un sequel/prequel, al quale il finale strizza l’occhio).

Il pubblico faticherà a riconoscere dietro la barba incolta il volto rassicurante che è stato di Paolo VI, di Franco Basaglia, di Aldo Moro e Alcide De Gasperi.

Ma Gifuni, interprete tra i più impegnati e rigorosi del nostro cinema, sfida il pregiudizio e la pigrizia del sistema (e del pubblico) italiano, avvezzi a ingabbiare attrici e attori e in ruoli sempre uguali a se stessi e pronti a indignarsi al primo tentativo di uscire dal seminato. Sfida vinta a mani basse. Con quel giubbotto verde militare come seconda pelle non si può non pensare a un altro reduce carico di rabbia come John Rambo. Anche se sembra che più che all’action d’Oltreoceano, Di Martino guardi alla serialità di genere. Cita apertamente Daredevil nel piano sequenza sulle scale del villone di Mozart e non manca di guardare a Frank Castle, il veterano disturbato e implacabile vendicatore di The Punisher, come Leonida Riva segnato nel corpo e nello spirito da un passato doloroso. 

La trama molto lineare (la sceneggiatura è scritta dal regista con Claudia De Angelis  e Nicola Ravera) non è necessariamente un difetto in questo contesto. Lo è la mancanza di vere svolte narrative in grado di sorprendere lo spettatore che però potrà apprezzare stile e regia ben al di sopra degli standard italiani, coreografie efficaci e l’ottimo lavoro sul sonoro, una rarità nel cinema italiano. Notevole anche la colonna sonora degli Enemies.

 La pellicola si innesta perfettamente nel discorso che Groenlandia, la factory di Rovere e Sidney Sibilia, cerca di portare avanti nell’audiovisivo italiano. Battere nuove strade (o strade dimenticate come il genere), diversificare, da un lato, investire su giovani registi, che arricchiscano il sistema con nuove forze, dall’altro. Ecco come nascono Romulus, la serie sulle origini di Roma attualmente in onda su Sky e L’incredibile storia dell’isola delle rose, dal 9 dicembre su Netflix (presto vi parleremo di entrambi). Quindi perché non l’action metropolitano, genere che a Hollywood, negli ultimi anni, ha fatto la fortuna di attori un po’ agè in cerca di rilancio, Liam Neeson su tutti con la saga di Io vi troverò e simili, ma anche il Keanu Reeves di John Wick e il Denzel Washington di The Equalizer.

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