L’Alligatore, l’hard boiled padano che mancava alla serialità Rai. Affari sporchi, sbirri corrotti e rifiuti tossici per Martani-Buratti di cui non si può più fare a meno

by Nicola Signorile

Una nuova strada per la serialità italiana sguazza nelle paludi del Nordest. Affari sporchi, sbirri corrotti, tratta di esseri umani e rifiuti tossici: l’opulenza dell’operosa provincia padovana cela segreti inconfessabili. Investigatore, suo malgrado, Marco Buratti, ex cantante di blues è reduce da sette anni di (ingiusta) reclusione che però gli hanno regalato un nuovo mestiere. In carcere ha imparato a muoversi a pelo d’acqua, toccando mondi marginali, spesso fuorilegge, emergendo e inabissandosi rapidamente, a proprio agio tra malavitosi, sbandati e avvocati bene che necessitano delle sue competenze.

Rai 2 si conferma la rete in cui, dalle parti dell’azienda di stato, si cerca di sperimentare, di puntare su show meno convenzionali rispetto a quelli cui ci ha abituato la rete ammiraglia. Il terzo indizio è una prova, dopo Rocco Schiavone e Il Cacciatore. Inoltre, L’Alligatore, serie prodotta da Fandango tratta dai romanzi di Massimo Carlotto con la supervisione artistica di Daniele Vicari, che ne ha curato la regia insieme a Emanuele Scaringi (Vicari dirige primo e quarto episodio, Scaringi i due intermedi) ha provato a intercettare il pubblico dedito al binge watching attraverso la pubblicazione dell’intera serie su Raiplay (e lì la trovate ancora), in anticipo sulla messa in onda in prime time dal 25 novembre.

L’Alligatore sotto molti punti di vista – regia, ambientazione, costruzione dei personaggi principali, uso delle musiche – rappresenta una netta innovazione per le serie Rai, e per la produzione seriale italiana in generale. Marco Buratti (Matteo Martari), detto l’Alligatore, è un investigatore senza licenza che non ama la violenza e le armi, ma che non teme di usare metodi illegali pur di arrivare alla verità.

Dopo sette anni riparte dagli amori e dalle ferite. Non canterà mai più, ma la musica, il blues in particolare, e il fido Calvadòs – la “schifezza” che piace solo a lui – fanno bene al suo cuore. Greta, la sua ex (una Valeria Solarino di sensualità dirompente), anche lei cantante, lo ha apparentemente abbandonato al suo destino, cercando fortuna all’estero e l’amore altrove.

Il primo ingaggio arriva da un avvocato interessato alle sorti di un ex compagno di cella dell’Alligatore, Magagnin. È l’innesco di un nuovo percorso. Una nuova vita di coppia: Beniamino Rossini è il socio di Buratti in questa strampalata ricerca della verità. Un gangster vecchio stampo dai modi spicci e un marcato accento milanese, capelli lunghi e baffoni alla Nick Cave; uno veloce di mano e di coltello, più ancora che con le pistole, che sembra uscito da Milano Calibro 9. Il linguaggio della mala meneghina, la disillusione e una personale etica da criminali di una volta (che forse è esistita solo nei racconti popolari): quello che “certe cose non si fanno” pronto a dar rifugio a giovani donne straniere costrette a prostituirsi. Per molti versi l’opposto di Buratti, pacifista che detesta le armi, ma con un senso di giustizia che lo accomuna all’amico. I due, naturalmente conosciutisi in carcere, sono la forza principale della serie. In particolare, Rossini è il personaggio della vita per Thomas Trabacchi, un attore che non tradisce mai, cambia pelle per entrare in personaggi diversissimi e in alcune delle più coraggiose operazioni degli ultimi anni, dalla trilogia 1992-93-94 a Nico, 1988 di Susanna Nicchiarelli, fino a Non uccidere, altra serie Rai dove già condivideva la scena con Matteo Martari, al quale contendeva i favori di Miriam Leone.

La sceneggiatura, scritta da Andrea Cedrola, Laura Paolucci, con la collaborazione di Carlotto, pur dando il giusto spazio alla bizzarra coppia e alle loro scorribande tra incursioni in case di sospetti, interrogatori sbrigativi, conversazioni in auto che sfiorano il nonsense e qualche sparatoria in cui Rossini mostra capacità balistiche non comuni, si dedica a costruire un contesto perfetto: un Veneto ambiguo, dalle atmosfere livide abitato da personaggi che vivono al confine tra legale e illegale, tra terra e acqua. Le lunghe strade strette, costeggianti la laguna, fanno da sfondo ai viaggi sulla station wagon scassata di Buratti o sul Suv ultimo modello di Beniamino, come il bar-baracca in mezzo all’acqua dove si suona “la bella musica” è il rifugio anfibio dove Buratti prova a dimenticare Greta e a ricostruirsi insieme a Virna, la barista con i capelli multicolor (Eleonora Giovanardi).  

La serie si muove in un ampio perimetro di chiari riferimenti e suggestioni che va dal cinema di Fernando Di Leo all’hard boiled statunitense. Fa venire in mente celebri coppie di detective, da True Detective ai romanzi di Joe Lansdale, le atmosfere sospese del compianto cantore del Nordest, Carlo Mazzacurati e la mala del Brenta della serie Sky Faccia D’Angelo (con cui condivide anche alcuni interpreti).

La musica di Teho Teardo, mix di rock, blues, soul e country, è un vero e proprio personaggio della serie. Scandisce la nuova vita dell’Alligatore, le serate al bar, i concerti della band di Greta, le bevute solitarie e i giretti con Rossini. Voci roche e note dolenti che sembrano sgorgare da anime ferite come quella del protagonista danno corpo al mood sonoro e visivo del racconto. Ai marroni e ai verdi della laguna guardano i colori della fotografia piena di sfumature di Gherardo Gossi, e quelli, conseguenti, di scenografia e costumi. Il blues trasforma la laguna veneta in una malinconica Lousiana, l’ambiente naturale in cui si muove l’ex bluesman, in un sottobosco padano cresciuto lungo il Po, tra i canali che da Comacchio si espandono fin sopra Venezia.

C’è anche un terzo elemento a completare la banda dell’Alligatore: Max, detto la Memoria (Gianluca Gobbi), un testardo ambientalista ficcanaso che rischia la propria e l’altrui incolumità per denunciate i balordi che inquinano. È per non fare il nome dell’amico che L’Alligatore è finito nei guai. L’amicizia è sacra: il nome di Max è rimasto un segreto, anche dopo le botte dei poliziotti corrotti, le torture in carcere, i sette anni in gabbia. Max (il personaggio meno a fuoco che paga maggiormente la forza del duo Buratti-Rossini), doti da hacker provetto, vive nell’ombra con la bella Marielita (Shalana Santana), una botanica con un innato buonsenso che spesso serve a stemperare le isterie del trio maschile. Lei è l’unica persona che va a trovare Buratti in carcere, si espone più volte per l’amico fronteggiando persino il cattivo della storia, Tristano Castelli (Fausto Maria Sciarappa).

Per una volta si esce dalla diarchia Roma-Napoli per una serie crime italiana, si sdoganano il Veneto e la sua parlata, si punta sulle facce giuste senza passare per i soliti nomi noti al grande pubblico. Valeria Solarino è la più conosciuta del gruppo, estremamente a suo agio nei panni della suadente femme fatale, poi Fausto Maria Sciarappa, molto credibile come canaglia in doppiopetto, il volto rispettabile del marciume della provincia.

Poi Matteo Martari, finalmente in un ruolo da protagonista. Veronese di nascita, l’attore ex-modello ha il phisique du role, il carisma, il veneto masticato, l’incedere caracollante dell’Alligatore di Carlotto. Daniele Vicari, regista di Diaz, Sole, cuore amore e Il passato è una terra straniera, è un autore importante del nostro cinema, coraggioso e militante, che non ha mai avuto paura di forzare i limiti del conformismo dell’audiovisivo italiano. Per la prima volta alle prese con la serialità fa subito centro, riuscendo a combinare gli elementi  letterari dell’intreccio noir con un’attenzione ai personaggi e ai loro conflitti interiori che non relega la dimensione estetica a un ruolo ancillare, come spesso accade alle produzioni nostrane. Inoltre, non ha timore di esibire il marcio della provincia italiana con poliziotti al soldo dei potenti che incastrano persone innocenti (si era mai visto un pestaggio della polizia in prima serata sulla Rai?), logge paramassoniche a tirar le fila, politica e clero collusi e genuflessi al vero potere. I rappresentanti del sistema (magistrati, medici, forze dell’ordine, ecc) non sono per forza brave persone piene di dedizione e spirito di sacrificio: lo sappiamo tutti, ma gli sceneggiatori italiani sembrano talvolta vivere in un idillico altrove.

Massimo Carlotto

Il mondo di Massimo Carlotto, d’altronde, è composto di personaggi borderline che vivono sul crinale tra giusto e sbagliato, tra legalità e illegalità, ricchi di chiaroscuri e ambiguità; delle sue storie fanno spesso parte servizi deviati, terrorismo nero e rosso, poliziotti discutibili. Il male e il bene si scambiano spesso di posto. Non a caso, il suo noir cupo, nichilista, per niente conciliante è stato finora pressoché ignorato dal cinema italiano. La più nota trasposizione è Arrivederci amore ciao di Michele Soavi, pellicola del 2006 da recuperare con un gigantesco Michele Placido sbirro coinvolto negli affari sporchi. Un accenno la merita la biografia dello scrittore padovano, che è essa stessa il miglior romanzo che avrebbe mai potuto scrivere, sua fonte inesauribile di ispirazione.

Diciannovenne militante di Lotta Continua, viene accusato ingiustamente di aver ucciso a coltellate una ragazza di 24 anni e condannato a 16 anni di reclusione. Dopo anni di latitanza tra Francia, Spagna, Messico, decide di tornare in Italia, per costituirsi e scontare la pena. Arrivano petizioni e prese di posizione pubbliche di intellettuali e politici, nascono comitati per la revisione del processo. Dopo sei anni di carcere sarà solo la grazia concessa dal presidente Scalfaro a scrivere il finale di una storia, raccontata poi nell’autobiografia romanzata Il fuggiasco, prima pubblicazione di Carlotto datata 1995, diventata nel 2003 un film bello e invisibile di Andrea Manni. Speriamo di poter rivedere la serie in una seconda stagione. C’è tanto materiale a disposizione, abbiamo solo avuto un assaggio del mondo di Buratti e soci.

Un hard boiled padano è qualcosa che mancava. Dell’Alligatore, e soprattutto del meraviglioso Rossini, non crediamo di poter fare più a meno.

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