L’Arminuta, “restituita” allo schermo da Giuseppe Bonito che assiste l’assenza nel romanzo bestseller di Donatella di Pietrantonio

by Gabriella Longo

In una bella conversazione con Donatella di Pietrantonio di quasi un anno fa, sempre qui su Bonculture, l’autrice abruzzese, Premio Campiello 2017 per l’Arminuta, avviava una profonda riflessione sulla “deprivazione degli affetti primari e dell’amore materno” che le protagoniste dei suoi racconti (l’Arminuta prima, Borgo Sud dopo) avevano sperimentato. Un vuoto che non avrebbero potuto sostituire ma che erano riuscite a recuperare, anche se non sempre agevolmente, coltivando quello fra sorelle. Insieme a Monica Zapelli, Donatella di Pietrantonio ora firma anche la sceneggiatura dell’omonimo film diretto da Giuseppe Bonito (nelle sale  dal 21 ottobre), un regista che dopo Pulce non c’è (2014) e Figli (2020) si cimenta in un racconto tutto al femminile, dando corpo e voce ad  esistenze fragili e poetiche quali l’Arminuta e sua sorella Adriana.

Abruzzo, metà anni Settanta. Una tredicenne dai capelli rossi e con la pelle bianca entra in un’inquadratura grigia come un’estranea. Sdice col suo abitino pastello in una campagna dimenticata, piena di animali e bambini vestiti di stracci. Un attimo prima era immersa dalla luce calda della sua casa vicina alla spiaggia. Senza nome, l’arminuta, che in dialetto abruzzese vuol dire la ritornata, più propriamente, “restituita“ alla famiglia cui non sapeva di appartenere, subisce un passaggio da lei assolutamente non richiesto.

L’Arminuta perde tutto della sua precedente vita: una casa confortevole, le gite al mare difronte, l’affetto esclusivo riservato a chi è figlio unico, il calore di quella madre che aveva creduto sua e che, improvvisamente, dice di non poterla più tenere per colpa di una malattia. La rimanda a quella che davvero l’ha messa al mondo, scompare dalla sua vita e si fa “sentire” da lontano, attraverso una manciata di regali e buste di banconote che arrivano puntualmente a sedimentarne il distacco. All’ Arminuta non è dato sapere, non è dato chiedere. Il punto è processare di essere stata figlia di due madri che l’hanno  presa e abbandonata una volta ciascuna.

Intanto si trova confinata nell’aspro entroterra abruzzese, in un’abitazione in rovina, a condividere la stanza con altri quattro fratelli di età diverse, maschi e femmine, il letto “coccia”-piedi con Adriana, la sorellina di dieci anni che bagna ancora il materasso, in una promiscuità di spazi e situazioni, con i tempi dettati dal lavoro duro, il freddo imposto dalla neve e dalle conversazioni respingenti, e non soltanto perché nella sua nuova-vecchia famiglia tutti si esprimono in dialetto. I fratelli maschi la prendono in giro e sperano che se ne vada, il più grande, che ha abbandonato gli studi per lavorare in campagna, la seduce. Lui è quello che ha più voglia d’evadere: ci ha provato tre volte , l’ultima gli è stata fatale. L’Italia del contro-boom viaggia a due velocità differenti e l’Arminuta le ha sperimentate entrambe: quella della borghesia piccola e media che ha trovato il suo assestamento economico nei centri urbanizzati e quella rurale, ancora pesantemente arretrata. Da queste parti si fanno più figli di quanti se ne possano mantenere, i soldi scarseggiano come le carezze. I pochi scampoli d’ingenuità e tenerezza, dunque, sono tutti restituiti dal rapporto fra le due sorelle che intanto cresce, nonostante le diversità: l’Arminuta che compra gelati ad Adriana, Adriana che irrompe nella classe dell’Arminuta per chiederle se si trova bene nella nuova scuola. Condividono sogni e segreti, si spintonano e si proteggono. E l’Arminuta, che è più intelligente che beneducata, saprà farsi valere, fra i banchi e a casa, forte nell’imparare le regole di questa nuova famiglia, determinata nel rivendicare il diritto di non essere trattata da pacco da questa e dalla vecchia.

Bonito prende quindi le mosse dal romanzo senza strafare nella forma né rimaneggiare la sostanza, attingendo da lì la sostanza emotiva del film. Disperdendo,(soprattutto nella seconda metà) la capacità che ha avuto l’autrice di dare forma grafica all’argomento cardine: l’Arminuta è, primariamente, una storia di assenza. Si leggeva, in qualche lucido e amaro “a-parte” della protagonista (che poi, coincide col suo mondo interiore) di un “vuoto persistente conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. Un paesaggio desolato che di notte toglie il sonno e fabbrica incubi nel poco che lascia. La sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure”.

Nelle pagine questo vuoto era visualizzato attraverso una scrittura asciutta ed ellittica, votata alle pause e ai silenzi, come giustamente si ricordava anche ad incipit della conversazione con l’autrice succitata. Vuoto che, nella pellicola, si rintraccia nelle omissioni affettive delle madri più che nell’esplorazione di quel mondo interiore che caratterizza così fortemente la protagonista.

Anche il film è un racconto morigerato, ma nel suo entrare sempre in punta di piedi in ogni situazione, finisce per diventare didascalico, perché non commenta ma esegue, con la pecca di aver svelato dei gesti e rappresentato dei desideri che nel libro si potevano soltanto intuire (come l’ambiguo rapporto con Vincenzo). Certamente più delicato di quanto non fossero le parole da cui proviene, perché, ricordiamolo, il libro non era solo poetico, ma fatto anche di lacrime, sudori, lavandini gocciolanti, galline da spennare e sventrare. E difatti funziona bene quando rappresenta la realtà grigia con gli occhi dell’Arminuta, un alieno atterrato improvvisamente vicino ad una vasca lercia da scrostare. Assiste con dovuto lirismo i momenti di leggerezza tra le sorelle (il giro in giostra, le fughe al mare), bagnandoli fattivamente di un filtro caldo che riaccende l’immagine (la fotografia è di Alfredo Betrò). Ma poi si perde in un refrain di situazioni che, appunto, si ripetono un po’ stancamente fino alla scena del pranzo a casa della “vecchia” madre, dove la tensione evapora in un frettoloso ed eccessivo mostrare senza commento.

Di sicuro la nota di maggior pregio è stata dare, materialmente, il volto diafano, impaurito e determinato di Sofia Fiore all’Arminuta, quello sveglio e vivace di Carlotta de Leonardis alla sorellina Adriana, e il corpo tragico, in atteggiamento di gravidanza perenne assunto da Vanessa Scalera per interpretare questa madre che, come l’altra, dovrà imparare ad esserlo non soltanto biologicamente.

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