L’uomo invisibile, il film di Leigh Whannell dal racconto di H.G. Welles

by Giuseppe Procino

L’elaborazione del racconto di H.G. Wells, in questo suo ultimo remake, assume una veste più attuale e quotidiana, mettendo la carica hi-tech, che ne aveva caratterizzato invece le ultime riduzioni cinematografiche, un po’ da parte o perlomeno riducendola ad elemento di contorno.

Quello che guida questa nuova versione de L’uomo invisibile è la normalità attraverso cui si dipana la storia, molto più vicina a un concetto di attendibilità e d’immedesimazione davvero efficace. La tecnologia non è il vero motore dell’intreccio narrativo ma il mezzo attraverso cui il cattivo cerca di raggiungere il proprio scopo.

Intrappolata in una relazione violenta con un ricco e brillante scienziato, la protagonista, Cecilia, scappa nel cuore della notte, aiutata da sua sorella e un suo amico d’infanzia.

Quando l’ex compagno violento si suicida e le lascia una porzione generosa della sua vasta fortuna, cominciano ad accadere strane cose nella vita di Cecilia, così da farle sospettare che la sua morte sia stata una messa in scena.

Il risultato cinematografico, ennesimo tentativo da parte della Universal di rilanciare il suo brand più importante, è ricco di trovate azzeccate. Innanzitutto, questa versione dell’uomo invisibile si muove lungo il genere fantascientifico in maniera tangente, intersecando invece in maniera decisiva le aree dell’horror e del thriller psicologico.

L’innovazione parte dalla motivazione del nostro ‘cattivo trasparente’, stavolta non più mosso da brama di potere o dal denaro, trovando invece il suo senso esistenziale in un impulso molto più concreto e per questo più spaventoso: lo stalking e violenza domestica. E quali motivazioni, risulterebbero più banali per un antagonista dotato dei mezzi per potersi muovere in totale silenzio e libertà? E portando nel film alcuni dei più noti, sottili e diffusi spettri della violenza del mondo d’oggi, in un volontario processo d’identificazione, ecco che emerge la scelta di percorrere la strada più semplice, apparentemente banale, perché nella semplicità vive il credibile.

Questo punto di partenza permette a Leigh Whannell di esplorare infatti territori che lo spettatore conosce molto bene, magari per via della cronaca, magari perché in qualche modo ‘vittima’. In questa semplificazione dei ‘perché’, è necessario innanzitutto un ribaltamento del punto di vista, che trasforma in questo modo la storia di Wells in una favola nera del contemporaneo, quasi fondendo il racconto di fantascienza con il Barbablù di Perrault. Esattamente come nella fiaba francese, l’eroina di questa pellicola è una donna che dovrà liberarsi del suo persecutore.

Elisabeth Moss, impeccabile come sempre, interpreta così un personaggio dalla psicologia tutt’altro che semplice, in evoluzione equilibrata e mai eccessiva sino a trasformarsi in una dark lady quasi da ‘noir’ classico, in un finale abbastanza sconvolgente.

In questo modo, ciò che scorre in maniera assolutamente naturale è la trama, che si costruisce in maniera graduale attorno alla protagonista e che ci tiene ancorati a un mondo che, asciugato della sua componente ultratecnologica, è proprio il mondo di tutti i giorni. All’interno di questa sceneggiatura, scritta con raffinata intelligenza, il male diventa metafora del concreto.

Non parleremo di film femminista, perché sarebbe irreale pensare che a tifare contro questo cattivo invisibile siano solo le donne, diremo però che Elisabeth Moss crea un ponte con le importanti Screaming Queen dello slasher movie e quindi, se è femminista questa pellicola, lo sono anche Prom Night oppure Halloween II di Rick Rosenthal. E proprio dal film di Rosenthal, Whannell attinge in maniera decisiva nella seconda parte, scegliendo però di non creare la carneficina facile, evitando la mattanza e dosando sangue ed effettacci, a favore di una narrazione fatta di rumori, sensazioni e tanta immaginazione. Quello che fa veramente paura è ciò che lo spettatore percepisce ma che non è mai mostrato in maniera esplicita e inequivocabile.  Lo stesso antagonista, che dà il titolo alla pellicola, privo della tuta che lo dota di questa particolare caratteristica, non viene mai mostrato con chiarezza. Sono evitati i primi piani, creando, di fatto, un cattivo che ha il volto dell’uomo comune.

La sceneggiatura evita di continuo approfondimenti e forzature esplicative. Allo spettatore sono spiegate pochissime cose, le restanti le deve immaginare. La regia ci accompagna così in un film che esprime appieno il potenziale drammatico e terrificante della storia, tenendoci però con un occhio aperto sulla realtà, dosando l’effetto visivo in maniera centellinata e senza mai esagerare. A essere efficacemente esagerata è infatti la tensione, costruita a regola d’arte.

La Bloomhouse si conferma una certezza nella realizzazione di pellicole di tensione con budget non elevati, a conferma che, prima dei dollari, quello che conta è una buona idea.

Qualcuno avrà da ridire sul fatto che quest’opera metta da parte gran parte dell’immaginario creato da Wells o dalla pellicola del 1933, ma dopotutto questa è un’opera che rielabora quella stessa sostanza rendendola autonoma e che solo attraverso questa operazione poteva vestirsi di novità, creando, di fatto, un film che ha tutte le potenzialità per diventare un classico del genere.

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