“Non odiare”: l’esordio squassante di Mauro Mancini dal realismo minimale, con un dolente Alessandro Gassmann

by Nicola Signorile

Il passato non muore mai. E non è neanche passato” (William Faulkner). La Storia però non si ripete con le stessa modalità. Cambiano le condizioni e i protagonisti. A reiterarsi all’infinito è l’esperienza del male e dell’odio, un fiume che carsicamente percorre la storia dell’umanità. Viene a galla cambiando faccia o mezzo di espressione, per esprimere sempre lo stesso vuoto. Di memoria, di valori, di significato. L’esordio alla regia di Mauro Mancini, Non Odiare, passato alla Settimana della Critica dell’ultima Mostra del cinema di Venezia, ci mostra gli effetti dell’odio sugli uomini: come un sasso lanciato in uno stagno, produce onde che si propagano nel tempo. Lente, inesorabili, investono anche persone dalla vita irreprensibile come il protagonista del film, il chirurgo di origini ebraiche Simone Segre (Alessandro Gassmann).

Quando il seme viene gettato, scava nel profondo dell’animo umano. Lascia ferite laceranti. Ribalta le parti in tragedia, trasformando le vittime in carnefici. Così quando Segre (scelta del cognome casuale?) si ritrova davanti la vittima di un incidente stradale, Antonio Minvervini, sceglie di lasciarlo morire: l’uomo è un neonazista con una enorme svastica tatuata sul petto e il simbolo delle SS ritratto sul braccio. Segre sa cosa ha vissuto suo padre, sopravvissuto al campo di concentramento: non può dimenticare. Un avvio folgorante per la pellicola – coproduzione tra Italia e Polonia girata a Trieste, luogo mitteleuropeo, storicamente sedimentato e dalle profonde radici ebraiche – che Mancini ha scritto insieme a Davide Lisino, a partire da un fatto di cronaca avvenuto nel 2010 in Germania, a Paderborn, dove un chirurgo di origini ebraiche si rifiutò di operare un uomo con un tatuaggio nazista, facendosi sostituire da un collega.

Quella di Segre è una scelta squassante, mai compiaciuta, le cui conseguenze morali, da lì in poi, segnano il volto, e l’esistenza tutta, di un Gassmann mai così dolente. Un uomo aitante, sportivo, così dissimile dalla fisicità associata spesso nell’immaginario cinematografico, con un sottotesto vagamente razzista, agli ebrei. Non si parla molto in Non odiare; lo sviluppo della vicenda è affidata ai silenzi, ai non detti, ai vuoti spaziali ed emotivi, agli sguardi degli attori che lavorano, benissimo, in sottrazione. L’opzione intimista è preponderante, fatta eccezione per le improvvise impennate di rabbia, affidate alla figura di Marcello (Luka Zunic), il giovane skinhead e alla galassia nera che abita, malsana eredità paterna. Il funerale è una finestra su quel mondo di stanche ritualità, di saluti romani e slogan nostalgici, spiato da Simone. Il medico si intromette in un nucleo famigliare altrui, pedina, osserva da lontano.

Così come la macchina da presa resta sempre un passo indietro, si mette al servizio dei sentimenti dei personaggi senza intromettersi. Per metterli a nudo non rivela la propria presenza, tiene la giusta distanza; è un osservatore muto che occhieggia da angoli nascosti, privilegiando i campi lunghi o i totali e attraverso riprese dall’alto. Segre scopre che l’uomo che ha lasciato morire aveva due figli, Marica (Sara Serraiocco), a sua volta mamma del piccolo Paolo (Lorenzo Buonora), e Marcello. Il senso di colpa non gli lascia scampo. Per metterlo a tacere assume la donna come collaboratrice domestica, scontrandosi subito con i dogmi del fratello. “Lavori da un giudeo di merda. Papà non avrebbe mai tradito i suoi ideali”, le dice rabbiosamente Marcello.

Il realismo minimale non si sposa del tutto con il racconto di un sottobosco neofascista che infatti resta sullo sfondo, lasciando la scena principale ai contesti casalinghi. Da una parte, l’asettico appartamento di Segre, sontuoso, contemporaneo, privo di segni del passato (presto scopriamo perché), dove l’uomo condivide un enorme spazio vuoto con Marica, assunta per fare le pulizie; dall’altra casa Minervini, nella periferia della città, dove i due orfani cercano di rigenerarsi come nuova famiglia insieme al piccolo Paolo. Non ci sono buoni né cattivi per Mancini: il suo skinhead sa regalarsi anche attimi di gioco e tenerezza con la sorella e il nipotino, di cui non sembrava capace. Con Paolo condivide una stanza funestata da una grande svastica sul muro: il pensiero non può che andare ad American History X di Tony Kaye, alla camera dei fratelli Vinyard, alla relazione tra il neonazi adulto, ormai pentito, e l’adolescente imbottito di falsi miti. Un parallelo che è solo accennato: le due opere praticamente condividono solo il richiamo all’immaginario di violenza e intolleranza che nutre i giovani protagonisti.

Marica è tornata a casa per stare con il fratello, dopo la morte del padre. Ha lasciato un lavoro da segretaria per fare la colf di giorno e stare dietro il bancone di un supermercato di notte. La famiglia è un richiamo alla responsabilità, ma può essere anche un inferno. Nel prologo, Simone bambino viene costretto dal padre, reduce dai campi di concentramento, a scegliere il gattino di una nidiata e uccidere gli altri, affogandoli. Un rito di passaggio molto violento, che ci lascia immaginare quanto è stato difficile per il protagonista crescere con un padre sopravvissuto all’orrore. Anche Segre ha appena salutato il padre per sempre. Di lui, gli restano un cane rabbioso, a cui non riesce nemmeno ad avvicinarsi, e una casa da vendere. Una dimora strapiena di cianfrusaglie così diversa dalla sua, dove “ci sono anche cose belle” per Marica, ma al protagonista interessa solo disfarsi della figura “dannosa” del padre.

Se qui c’è della bellezza non è certo merito di mio padre”, è l’epitaffio su un rapporto padre-figlio sul quale non spreca troppe parole. Curava i denti dei nazisti, “io non l’avrei mai fatto”: bastano gli sguardi di Gassmann a svelarci un’assenza, una ferita. In qualche modo, la relazione interrotta per sua mano tra Antonio e i suoi figli riporta a galla un trauma sospeso. Lo spinge a ripensare alle proprie radici, a riscoprire l’ebraismo, forse in cerca di risposte: lo vediamo pregare con la kippah in testa e riportare a casa una menorah, unico oggetto superstite dalla casa paterna. Non a caso, la casa da svuotare fa da teatro al primo, autentico, avvicinamento tra Simone e Marica, che si lasciano scrutare dentro, l’uno dall’altra, senza filtri.

Il tema della paternità ritorna costantemente nella carriera di Alessandro Gassmann, sin dai suoi primi passi, difficili, all’ombra di un padre tanto ingombrante (la madre di Vittorio, Luisa Ambron era di religione ebraica e ebbe parenti morti nei campi di concentramento). Debutta al cinema nel 1982 con Di padre in figlio, scritto, diretto e interpretato da Vittorio. Poi, esplorato al cinema, nel suo debutto alla regia, Razzabastarda, e ne Il Premio nel 2017 e, a teatro, ne Il silenzio grande, su testo di Maurizio De Giovanni.

Proprio in queste settimane, su Rai 1, lo vediamo alle prese con un padre pieno di sensi di colpa che fa i conti con la misteriosa morte del figlio nella serie Io ti cercherò. Sara Serraiocco è, sin da Salvo e La ragazza del mondo, attrice sensibile, in grado con un solo sguardo di lasciar intravedere mondi interiori, come quello di Marica, giovane donna in bilico tra la fedeltà a una famiglia avvelenata dall’odio e la voglia di rinascita. Luka Zunic, al suo primo ruolo da co-protagonista, è sorprendente nel tratteggiare un antisemita, sfrontato in apparenza, fragile nel profondo.

Il “terzo atto” di Non odiare è quello meno a fuoco, in cui i nodi dovrebbero venire al pettine. Ma la svolta noir è troppo affrettata, Mancini non sembra a suo agio con strozzini e atmosfere alla Suburra. Il destino presenta il suo conto. A Simone Segre viene offerta l’opportunità di riparare ai propri errori. Spezzando la catena dell’odio. Riprendendo in mano la sua vita. I tre protagonisti si trovano, in momenti diversi, ad affrontare battaglie interiori tra i sentimenti che provano, e le aspettative e i pregiudizi che nutrono l’uno nei confronti dell’altro.

Non odiare è un’opera prima asciutta, essenziale, coraggiosa nel confrontarsi con un ferita aperta nella società italiana, rigorosa nella messa in scena e capace di non cadere nella facile retorica o in psicologismi semplificatori.

Manca un approfondimento delle motivazioni che spingono un ragazzo italiano oggi ad aderire a movimenti che si rifanno a ideologie, riti tribali, manifestazioni di mascolinità vetusta che guardano al passato remoto. L’eredità del male è sufficiente a spiegare il proliferare di questo nuovo/vecchio virus? La paura delle differenze vive oggi una nuova primavera. I suoi nuovi profeti godono di consensi in tutto il pianeta, Trump, Bolsonaro, le destre sovraniste in Europa. Non sappiamo che ne sarà di Marcello, né di Marica, madre e sorella capace di prendersi le proprie responsabilità; la pellicola lascia aperta ogni possibilità. Ma quel braccio alzato da suo figlio Paolo davanti alla lapide del nonno ci chiama in causa tutti: perché non siamo riusciti ancora a trovare gli anticorpi giusti all’odio e all’intolleranza?

Una risposta convincente al dilemma interiore del protagonista arriva da una donna che ha vissuto e vive ancora sulla propria pelle (è notizia recente l’assegnazione della scorta a causa delle minacce ricevute) gli effetti di quell’odio: la senatrice a vita Liliana Segre che, nell’ultima lezione agli studenti di qualche giorno fa, ha detto: “Volevano che diventassi un essere insensibile che sognava vendetta e odio, ma mai avrei potuto uccidere qualcuno: io non sono come il mio assassino. In quel momento sono diventata la donna libera e di pace con cui ho convissuto fino ad adesso”.

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