“Patricia è una donna che lotta per l’amore”, Rolando Colla racconta Quello che non sai di me

by Luana Martino

Ikendu (Koudous Seihon), è un rifugiato del Mali che, dopo avere lavorato in Libia è passato alle coltivazioni di pomodoro del sud Italia per poi raggiungere Bellinzona in Svizzera. Qui trova lavoro presso una fabbrica di pannelli che vengono inviati in Africa e si innamora, sposandola, di Patricia (Linda Olsansky), un’immigrata ceca che ha due figlie nate da due relazioni differenti. Tutto procede nella normalità fino a quando Ikendu non viene arrestato con l’accusa di spaccio.

Si tratta di Quello che non sai di me’ ultimo film di Rolando Colla, distribuito da Minerva Pictures e girato tra Italia e Svizzera, luogo natio del regista.
Presentato al Zurich Film Festival, il film, dopo il debutto online avvenuto durante il lockdown, è approdato alla scorsa edizione del Bifest – Bari International Film Festival e continua il suo viaggio.

Colla ci racconta di una Svizzera ordinata, composta, dove tutto ha una sua esatta collocazione, ognuno sa cosa deve fare, tutto è bianco o nero. In questa dimensione ci sono Ikendu e Patricia, due solitudini ai margini, provenienti da realtà ben diverse, alla ricerca di una possibilità per vivere meglio. Il regista, con uno stile simile a quello di Ken Loach, ci porta in maniera lucida e impattante nella vita dei due personaggi.  Con estrema bravura fa comprendere al fruitore che il suo modo di raccontare una storia (la Storia tra Ikendu e Patricia, in questo caso) consiste nel chinarsi nell’esistenze della gente comune che sono spesso emblema attendibile di ciò che sta accadendo nel mondo.

Un film attuale e necessario, una storia che diventa universale e che sempre di più fa parte di quell’immaginario che ci circonda e che viviamo quotidianamente perché quelle vite ai margini non sono poi così distanti da noi.

Per parlarci del suo lavoro abbiamo incontrato e intervistato il regista Rolando Colla.

Vorremmo iniziare parlando dell’iter del film. Dal ‘Zurich film festival’ al debutto online in Italia, poi al Bifest Bari International Film Festival. Il fatto che abbia debuttato online in Italia, cosa ha significato?

In questo anomalo periodo la cosa da fare è accettare la situazione così com’è. Purtroppo molti cinema sono ancora chiusi e per far in modo che un film esca, bisogna inventarsi qualcosa. Abbiamo, quindi, optato per l’uscita online affinché il film potesse essere visto. Se attualmente la visibilità è questa bisogna accettarla.
Per quanto riguarda l’accoglienza al Bifest è stata davvero incredibile. Abbiamo ricevuto una grande approvazione, devo dire che la Puglia è una regione davvero positiva e che ha grande stile.

Pur trattandosi di fiction il fruitore sembra essere immerso in un docufilm. Come mai questa scelta? Ti sei ispirato ad una storia vera?

Assolutamente si. Mi sono ispirato alla realtà e in più avevo i documenti giuridici del caso. In realtà, però, il personaggio della madre (Patricia) con le due figlie l’ho cambiato perché mi interessava raccontare di una donna che amasse a prescindere da sapere chi avesse difronte. A lei non interessa sapere se Ikendu sia davvero colpevole, lo ama comunque. Quindi c’è una parte di finzione ma che si basa su una storia vera.

Partendo da Rosarno, dal campo immigrati, da una realtà così forte, mi è sembrato quasi naturale girare il film come se fosse un documentario. Volevo realizzare un film piccolo, con un troupe ristretta, volevo esprimere la forza della storia e dei personaggi. Ho scelto di interpellare un direttore della fotografia ma senza assistente perché non volevo luci specifiche ma la naturalità. Niente trucco, nulla di artificioso e credo che questo dia al film una sorta di valore di ‘umiltà’ formale.

Come cerchi le tue storie e i tuoi personaggi? Cosa ti ispira?

Beh, certamente mi ispirano i personaggi marginali. Da sempre. Sono figlio di migranti italiani che non sapevano la lingua ed erano, quindi, persone mai veramente integrate nella società svizzera, dove io sono cresciuto. C’è un’affinità con questi personaggi. Credo che in loro si rispecchino i valori di tutta quella società emarginata ed è questo che mi interessa e che mi piace raccontare.

Quello che non si sa della persona che hai accanto può rivelarsi deleterio alla lunga o è un modo per mantenere il rapporto sempre vivo?

Una domanda molto personale…(sorride! N.d.R.) Credo che quando realizzo un film non sia per dare una chiave di lettura unica o per cercare di dare un messaggio specifico. Ognuno può trovare un suo approccio alla storia e al tema che non è totalmente esplicito ma che sottende tutto il film. In questo caso ci si chiede ‘chi è l’altro’, ‘cosa capisco dell’altro’, si tratta di un argomento molto complesso e se non c’è la capacità di essere sinceri e trasparenti – questo perché esiste una grande incertezza e una paura di fondo, almeno nei due personaggi del film – tutto si complica molto.

Ikendu e Patricia, due solitudini ai margini, dunque?

Si, assolutamente. Questo è il nucleo di tutto il film. Patricia è più alla ricerca, rispetto Ikendu, di qualcuno che la possa amare ma anche lui, in realtà, vuole una stabilità ed una famiglia.
Una sorta di conflitto tra l’amore e l’onore che Ikendu ricerca di continuo.
E’ come se la ricerca dell’onore da parte del protagonista gli faccia perdere la capacità di amare. Per Patricia, invece, a prescindere da tutte le difficoltà la voglia e il desiderio di amare restano sempre. Anche se l’amore cambia. All’inizio, infatti, per lei il sentimento non è lo stesso che avrà con lo scorrere della storia.
Lei ha perso un po’ di fiducia nell’amore universale e quest’amore diviene più disperato.

Il film è ricco di simbolismi. Come per la scena dell’arresto di Ikendu, ad esempio, tutta girata con una prospettiva dal basso. Quasi per dare importanza alla dignità calpestata?

Certo. Nei miei lavori cerco sempre di nascondere i simboli troppo espliciti ma voglio farli passare nell’azione e cerco di integrare all’interno del racconto immagini simboliche facendole passare in modo sotteso e morbido affinché solo chi vuole davvero analizzarle e coglierle possa rendersene conto.

Quali sono le tue ispirazioni cinematografiche?

Ci sono tanti bei film del passato sia a livello internazionale che italiano. Mi viene da citare, ad esempio, Tarkovskij, Cassavetes, Pasolini, ecc. Ma anche nel cinema nuovo credo che ci siano delle cose incredibili. Continuo ad andare al cinema e a farmi emozionare dalle storie e dai personaggi che le vivono.

Stai lavorando a nuovi progetti?

Si. Ho appena ultimato un documentario che andrà al cinema, quindi scoprirete presto di cosa si tratta.
Poi sto scrivendo nuove cose ma sai, non si parla in anticipo di alcune idee (ride! N.d.R.)

La conversazione prosegue anche con l’attrice protagonista Linda Olsansky che, con la sua estrema sensibilità, conclude questa intervista raccontandoci cosa abbia significato per lei interpretare il ruolo di Patricia. Una donna complicata ma semplice insieme, una donna che per amore sembra quasi sottomettersi a dinamiche che non può controllare ma che, inevitabilmente, la segnano e la mutano nel tempo.

Come è stato lavorare a questo film?

Ho adorato lavorare a questo film. Interpretando Patricia ho ritrovato subito delle caratteristiche personali con quelle del personaggio, c’è stato come un patto tra noi. Abbiamo in comune l’amare quasi senza limiti, per me è fondamentale, per lavorare, costruire una sorta di casa. Iniziare con il porre le basi, il pavimento dell’abitazione, per poi, piano piano, costruire una casa intera. Avere, quindi, la voglia di amare in comune con il personaggio di Patricia mi è servito come pavimento per realizzare l’intera casa.
Per fortuna Rolando è un maestro nel lavorare – già nelle prove – e grazie a questo si creano le relazioni tra gli attori e i personaggi che interpretano.
Io cerco di farmi ispirare dal personaggio e l’intuizione che provo verso quella parte mi aiuta ad interpretarla in maniera più naturale possibile.
Mi perdo in ogni singolo gesto del personaggio, sono concentrata su di esso per tutto il tempo in cui si gira il film. Una sorta di schizofrenia da personaggio che entra quasi in te. Due persone, tu e il personaggio, che entrano in relazione e addirittura litigano. Una sensazione che perdura per qualche tempo anche dopo la fine delle riprese. Questo perché si apprende sempre qualcosa da chi si interpreta.

Cosa ti porti, quindi, di Patricia?

Per me lei è come un furgone blindato. Ci sono due lati della prospettiva: uno è quello in cui lei è dentro il furgone, intrappolata, chiusa ma vede fuori; l’altro è quando lei è fuori, libera ma non sa cosa accade all’interno. Mi sembra una metafora che racconta bene le sensazioni di questa donna così sincera, così ‘incasinata’ che cerca di destreggiarsi nel suo ruolo di madre, figlia, moglie e donna.
Patricia è una donna che lotta per l’amore, per i suoi diritti e per la sua esistenza e mi sono emozionata nel dover affrontare questi sentimenti, perché volevo che lei si emancipasse e non fosse sottomessa a nulla. 

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