Tony Driver, il docufilm sul sogno americano (infranto) di Pasquale Donatone

by Luana Martino

Girato tra Polignano e l’America, “Tony Driver” racconta la storia di Pasquale Donatone che un giorno decide di cambiare il suo nome in Tony.  Nato a Bari, quartiere Madonnella, a 9 anni, a metà degli anni Sessanta, migra oltreoceano con la famiglia e cresce da vero americano.

Non è mai ritornato in Italia, fino a quando, ormai tassista di professione a Yuma, un blitz anti-immigrazione alla frontiera con il Messico lo costringe a scegliere: la galera in Arizona, o la deportazione in Italia per dieci anni. Il reato? Trasporto a bordo del suo taxi di migranti illegali negli Stati Uniti. 
Tony opta per la deportazione.

Rientrato in Italia, col suo sogno americano andato in pezzi, si ritrova completamente solo in quello che definisce “un altro pianeta”, un piccolo Paese immobile senza opportunità. Il suo sogno resta quello di tornare in America, quell’America che, però, sembra ormai difficile da raggiungere perché circondata da ‘muri’ sia fisici che non.

In programma stasera al Sudestival, Taxi Driver, realizzato dal regista Ascanio Petrini, è un docufilm emozionate e intimo che riesce a narrare, grazie alla figura di Tony, un tema dibattuto e perenne quello cioè dell’immigrazione. Perché, qualunque motivo spinga l’essere umano a migrare, si tratterà, comunque, di una scelta non semplice e di qualcosa che, spesso, si è costretti a fare.
Il regista riesce a scavare nel personaggio di Pasquale e, grazie alla scelta stilistica che è data da un connubio di documentario e fiction, rende la storia del protagonista quasi universale lasciando, soprattutto, nel finale uno spiraglio di speranza negli occhi dei fruitori.

Per l’occasione abbiamo intervistato il regista Ascanio Petrini.

Il tuo lavoro presentato alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia. Com’è stata questa esperienza?

E’ stato davvero bello andare al Festival di Venezia pur non avendo vinto (sorride n.d.r.).
L’esperienza alla Mostra del Cinema è incredibile anche se faticosa: il giorno dedicato al tuo film è denso di momenti in cui si alternano foto, interviste oltre, ovviamente, alla proiezione del documentario. Sarebbe stato bello vincere ma capisco che si trattava di un documentario che ‘combatteva’ contro i film; come se -sono solito fare questo paragone- una squadra di calcetto avesse vinto il campionato, insomma.

Il regista Ascanio Petrini

Perché ha deciso di raccontare la storia di Pasquale Donatone? Com’è nato il progetto?

Sono venuto a conoscenza della storia tramite un amico; poi, essendo pugliese, ho avuto modo di leggere su alcuni giornali locali la vicenda di un uomo che aveva vissuto per qualche giorno in una grotta di Polignano a Mare. Ho deciso, così, di approfondire la sua conoscenza per trarre il soggetto di un lungometraggio di finzione e, nel frattempo, lo filmo. Ottengo così il materiale che dimostra le abilità attoriali di Pasquale. Più studio la sua storia e più rimango sorpreso dalle sue capacità. Più scrivo un personaggio basato sulla sua vita e più mi accorgo che la cosa più originale sarebbe forse quella di fare un film con lui.

Come hai scelto, dunque, di realizzare un docufilm?

Come dicevo, volevo raccontare la storia di Pasquale e ho pensato che, invece di trovare un attore che potesse impersonarlo, sarebbe stato perfetto avere l’originale. Per questo si è optato per un documentario ma volevo anche inserire della fiction: ci siamo, così, mossi a cavallo tra i due linguaggi. Partendo dal documentario e dalla storia reale di Pasquale abbiamo voluto inserire elementi di finzione inventando un futuro migliore per il personaggio e trasformando esso stesso in un eroe.

Sembra che anche il finale rispecchi proprio questa unione tra documentario e fiction.

Esatto. Il finale lascia intendere che il personaggio possa essere uno di un film e non di un documentario. La sospensione del giudizio dello spettatore che si lascia trasportare dagli eventi e dalla storia di Tony e non sa bene, alla fine, se si è trattato di un documentario o di una fiction. Molti fruitori sono stati al ‘gioco’ che ho cercato di creare mantenendo sempre l’unione tra i due linguaggi cinematografici.

Per quanto tempo hai dovuto seguire il protagonista? Com’è è stato il rapporto con lui?

Le riprese effettive sono durate quattro settimane di cui due passate a Polignano, una in America e una in Messico. La realizzazione è stata più lunga però: ho conosciuto Pasquale due anni prima di iniziare le riprese, ho cercato di conoscerlo meglio, ho scritto il soggetto e ho fatto ricerche e abbiamo lavorato per capire come produrre il film. Siamo riusciti a trovare tre case di produzione (Dugong Films, Rabid Film, Fulgura Frango –MX-) e abbiamo iniziato la fase di riprese che è andata benissimo perché ero riuscito ad instaurare un ottimo rapporto con Pasquale. Lui, all’inizio, era restio perché non riusciva, e non riesce tutt’oggi, ad integrarsi con la mentalità e con le dinamiche del paese. E’ sempre stato abituato ad essere indipendente, individualista, a vivere in una grande città dispersiva dove sei un numero più che un individuo ma siamo riusciti, ugualmente, ad instaurare un rapporto di fiducia e di dialogo.

Nel tuo film tratti il tema dell’immigrazione. L’obbligo di dover lasciare la terra natia o, in questo caso, la terra che ti appartiene e alla quale appartieni.

Tutti hanno un motivo per essere dove sono, chi è in un luogo perché ci è nato ed è rimasto lì, chi ha voluto cambiare o chi è obbligato a farlo, io credo che il motivo prescinda dalla volontà di qualcuno di voler vivere in un luogo. In questo caso Tony vuole tornare nella terra che sente sua e fa di tutto per rientrare in America; il muro di confine con il Messico creato da Trump diventa, così, simbolo delle difficoltà e delle barriere che esistono e che sempre ci saranno.

Stai lavorando ad altri progetti?

Sì e stiamo capendo se poter realizzare un lungometraggio. Non posso dire altro per ora!

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