Dirk Bogarde, il divo romantico made in England più amato

by Orio Caldiron

Dirk Bogarde è il nome d’arte di Derek Jules Gaspard Ulric Niven van den Bogaerde, nato a Hampstead il 28 marzo 1921 e morto a Londra l’8 maggio 1999. Figlio dell’art director del “Times” di origine olandese e dell’attrice Margaret Niven, frequenta la Chelsea School of Art e debutta in teatro prima dello scoppio del secondo conflitto mondiale dove presta servizio nell’intelligence dell’esercito.

L’esperienza più traumatica è la lunga prigionia nel campo di concentramento tedesco di Bergen-Belsen. Nel dopoguerra ritorna con successo al palcoscenico, ma arriva presto al cinema. Scritturato dalla Rank, nonostante la versatile disinvoltura con cui passa da un genere all’altro, deve la sua popolarità all’affascinante dottore di Quattro in medicina (1954) di Ralph Thomas, la prima di una serie di commedie che per la loro spregiudicatezza si collocano in vetta agli incassi. Senza volerlo, diventa il divo romantico made in England più amato dal pubblico femminile. Nel gran numero di film in cui affina il mestiere, solo in rare occasioni – l’aggressivo criminale di I giovani uccidono (1949), il coraggioso avvocato omosessuale di Victim (1961), entrambi di Basil Dearden, l’esuberante pistolero di Il coraggio e la sfida (1961) di Roy Ward Baker – lascia affiorare la sua acuta sensibilità e sembra far le prove per i personaggi disturbanti che gli daranno la fama.

Il film della svolta è Il servo (1963) di Joseph Losey al suo primo incontro con Harold Pinter. Strepitosa radiografia dei rapporti tra servo e padrone nella casa signorile – che nella dislocazione dei piani rimanda alle stratificate gerarchie della società britannica – offre all’attore quarantaduenne l’occasione tanto attesa di un ruolo memorabile, quello del cameriere dell’esangue aristocratico destinato a soccombere. Nella chiave dell’insinuante sgradevolezza, il servo è reso magistralmente in una gamma di toni che vanno dal mellifluo al laido, facendo del sorrisetto stampato in faccia al personaggio il filo conduttore dell’intero film che scandisce le fasi sempre più abiette della degradazione. Non è meno inquietante il maturo professore oxfordiano di L’incidente (1967) di Losey e Pinter, che sfrutta al meglio il suo pacato aplomb di gentleman qui in competizione con l’estroverso collega impersonato da Stanley Baker. Il soffocante ambiente accademico è lo scenario più adatto per smascherare il fondo torbido e represso che si nasconde dietro la facciata della rispettabilità, facendo esplodere la ferocia con cui si approfitta della studentessa straniera in stato di shock.

La stagione italiana ne segna la definitiva consacrazione. La vicenda dell’artista di Morte a Venezia (1971) di Luchino Visconti, che insegue morbosamente l’ultimo slancio omosessuale per l’efebico Tadzio, rischierebbe di perdersi nel sovraccarico degli arredi e dei costumi dell’inizio novecento se non fosse per la vibrante interpretazione di Bogarde.  Sofferto alter ego del regista, si aggira tra le calli con lo sguardo smarrito e il passo claudicante incapace di sottrarsi alla paura d’invecchiare e al desiderio di bellezza fino a quando nella solitudine della spiaggia deserta non si affloscia sulla sdraio come una marionetta inanimata, mentre l’immagine di Tadzio scompare all’orizzonte. Solo un paio d’anni prima l’aveva voluto sul set di La caduta degli dei (1969) nei panni dell’impeccabile comprimario chiamato a far da spalla alle ambizioni di potere di Ingrid Thulin sullo sfondo del nazismo rampante, un Macbeth bello e dannato dai sinistri bagliori. Sulla scia viscontiana, Il portiere di notte (1974), il controverso film di Liliana Cavani, gli affida uno dei ruoli più spiazzanti e ambigui. Nella tragica rimpatriata tra l’ufficiale nazista e l’ebrea, che si erano incontrati nell’orrore del lager, guarda in faccia le pulsioni sadomaso che si annidano nell’inconscio.

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