I soliti sospetti che hanno distrutto la carriera e la vita di Kevin Spacey e che confondono la ricerca di verità e giustizia con la caccia alle streghe

by Claudio Botta

Nell’ottobre 2017 era ritenuto da tanti il migliore attore vivente, Kevin Spacey. Non solo per i due Oscar vinti con relativi personaggi entrati nella storia del cinema (il claudicante Keyser Soze de I soliti sospetti e il fragile, disperato, spaesato Lester Burnham di American Beauty), ma per tutta la galleria di straordinarie interpretazioni che hanno esaltato e mostrato il suo straripante talento in tutte le sue sfaccettature. Era il volto, il corpo e l’anima di Frank Underwood, che in House of Cards raccontava la politica moderna e il dietro le quinte del potere come mai prima una serie televisiva era riuscita a fare. Ma sono bastati pochi giorni a vedere crollare tutto, una solida carriera, la possibilità di continuare a lavorare, la reputazione. Sono bastate, sull’onda del MeToo dilagante, negli Stati Uniti le accuse di un altro (sconosciuto) attore, Anthony Rapp, che affermava di aver subito delle avances sessuali quando aveva 14 anni durante una festa in casa nel 1986. E ulteriori accuse – sempre di natura sessuale – da parte di altri quattro uomini, relative al lungo periodo – dal 2001 al 2013 – in cui Spacey era il direttore artistico dell’Old Vic Theatre di Londra, la massima istituzione inglese nell’ambito teatrale.

Erano tutte da dimostrare, ma nessuno ha concesso il beneficio del dubbio all’uomo, prima ancora che al professionista e alla star planetaria: House of Cards prima sospesa, poi terminata senza di lui, con stagione finale da 8 episodi e non i 13 previsti. Aveva finito di girare il film di Ridley Scott Tutti i soldi del mondo (sul sequestro di John Paul Getty IIII, nipote dell’uomo più ricco del mondo, avvenuto a Roma nel 1973), in cui interpretava proprio l’inflessibile miliardario: per paura che lo scandalo danneggiasse la pellicola al box office, d’intesa con la produzione il regista ha tagliato le scene con Spacey in fase di montaggio, assoldato al suo posto l’88enne Chistopher Plummer e rigirato in soli nove giorni le stesse scene, in una folle corsa contro il tempo per non fare slittare ulteriormente l’uscita del film nelle sale. Bloccata anche la distribuzione del film Gore, prodotto da Netflix e in cui Spacey, diretto da Michael Hoffman, interpretata uno dei personaggi più interessanti e controversi dello scorso secolo, Gore Vidal.

Da allora, il buio dovuto a uno stigma che solo Franco Neroha avuto il coraggio di sfidare, affidando all’attore un ruolo in uno suo film, L’uomo che disegnò Dio. Nell’ottobre dello scorso anno, una giuria di New York non aveva ritenuto Spacey colpevole, nella causa civile da 40 milioni di dollari che Rapp aveva intentato nei suoi confronti. E nel luglio di quest’anno, nel giorno del suo 64esimo compleanno a Londra è arrivato il verdetto di non colpevolezza per tutti i nove capi d’imputazione alla base del processo per violenza sessuale (relativo agli episodi contestato nel Regno Unito). Il “bullo sessuale” era innocente, insomma: ma qualcuno potrà mai risarcirlo per quanto ha subito, per un’immagine inevitabilmente sputtanata, al punto da rendere improbabile una risalita, un secondo tempo di vita e carriera? Perché i pregiudizi possono essere condanne indelebili, non sono previste assoluzioni o ulteriori appelli. Ne sa qualcosa Woody Allen, la cui carriera negli Stati Uniti è di fatto terminata con le accuse di molestie da parte della figlia Dylan – riportate per la prima volta durante la separazione dalla madre, Mia Farrow, nel processo per la custodia dei figli -: nonostante non sia mai stato nemmeno formalmente incriminato di molestie sessuali, ha dovuto registrare le dichiarazioni di attori che hanno dichiarato che non lavoreranno più con lui (Colin Firth) o che si sono pentiti al punto da devolvere il cachet percepito (Rebecca Hall, Timothée Chalamet) a organizzazioni onlus. Ne sa qualcosa Johnny Depp, passato dallo status di icona planetaria a reietto durante il lungo periodo di accuse e controaccuse legato alla fine del turbolento matrimonio con Amber Head, e che soltanto alla fine del lungo calvario giudiziario, con esposizione e pressione mediatica ben oltre l’ossessione, sta rivedendo uno spiraglio di luce, anche se i tempi dei contratti da attore più pagato al mondo sono lontani.

Ne sa qualcosa Roman Polanski, che dal 1977 è inseguito dal fantasma di un crimine orribile (aver drogato e violentato una tredicenne a Los Angeles), dal carcere, dalla fuga all’estero, dalle contestazioni che si rinnovano puntuali ad ogni nuovo film. Ne sa qualcosa Luc Besson, accusato di stupro dall’attrice belga-olandese Sand Van Roy ma assolto dalla Corte di Cassazione francese, dopo una prima archiviazione nel 2021.

Qual è il confine tra l’uomo con le sue condotte – anche discutibili – e responsabilità personali e l’artista, tra la necessità di cambiare una mentalità predatoria e ricattatoria (il MeToo è nato sull’onda del clamore suscitato dagli orrori perpetrati serialmente dai potentissimi Harvey Weinstein e Jeffrey Epstein) e la caccia alle streghe? Alberto Barbera, direttore artistico dell’edizione 2023 della Mostra del Cinema di Venezia, ha scelto – provocatoriamente e coraggiosamente, dati i tempi – di non farsi condizionare dai pregiudizi e di privilegiare l’aspetto artistico, inserendo fuori concorso i nuovi attesissimi lavori di Polanski (The Palace) e Allen (Coup de Chance), e Dogman di Besson tra i 23 film in concorso. «Luc Besson è stato recentemente scagionato da ogni accusa. Woody Allen è stato al centro di vicende legali per due volte alla fine degli anni Novanta ed è stato assolto. Nel loro caso non vedo quale sia il problema» le sue parole. «Nel caso invece di Roman Polanski si tratta di un paradosso. Sono passati sessant’anni. Lui ha ammesso le sue responsabilità. Ha chiesto di essere perdonato ed è stato perdonato dalla vittima. La vittima ha chiesto che la questione venisse dimenticata. Credo che continuare a puntare il dito su Polanski sia come cercare un capro espiatorio per altre situazioni che meriterebbero maggiore attenzione. Giudico le qualità artistiche dei film, e da questa prospettiva non vedo perché non avrei dovuto invitare Polanski a Venezia».

Giudicare le qualità artistiche e non (solo) le persone, senza peraltro elementi concreti a supporto di tesi da dimostrare e senza condanne preventive. Non lasciare che i ‘soliti sospetti’ (poi smentiti dalle sentenze di un tribunale) travolgano i Kevin Spacey di turno e li mandino alla deriva. Ma ne siamo ancora capaci, davvero capaci?

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