Marlon Brando, il ribelle bello e dannato di Hollywood

by Orio Caldiron

Marlon Brando – nasce a Omaha, Nebraska, il 3 aprile 1924, muore a Los Angeles il 1° luglio 2004 – è uno dei maggiori attori del secolo scorso, forse il più significativo tra gli intramontabili nevrotici del decennio dei cinquanta. Si trasferisce non ancora ventenne a New York per frequentare la scuola di recitazione di Stella Adler, ispirata al metodo Stanislavskij, e poi l’Actors Studio di Lee Strasberg. La clamorosa interpretazione del protagonista in jeans e t-shirt di Un tram che si chiama desiderio di Tennessee Williams – due anni di repliche e tournée in cui dal ’47 al ’49 ogni sera urla, grida, piange, rompe i piatti, prende a calci i mobili – gli apre la strada di Hollywood.

L’incontro più importante è quello con Elia Kazan che l’ha diretto a teatro e gira con lui Un tram che si chiama desiderio (1951), Viva Zapata! (1952), Fronte del porto (1954), i tre film più importanti della prima, grande stagione dell’attore. L’aggressivo Stanley Kowalski aggrappato alla moglie Stella, il rivoluzionario Emiliano Zapata alle prese con gli inganni del potere, l’ex pugile Terry Malloy lacerato tra la corruzione del porto e l’omertà familiare sono le icone iperrealistiche dell’ambiguità, sospesa tra violenza e mitezza, machismo e côté femminile. Sul piano del costume lascia il segno anche Il selvaggio (1953) di László Benedek che sembra anticipare la ribellione giovanile di qualche anno dopo, pronta a riconoscersi nell’urlo di Johnny, il capobranco dei motociclisti in sella alle loro Harley-Davidson: “Nessuno mi può dire che cosa devo fare”. In quegli anni l’“effetto Brando” si avverte in tutto il mondo, tanto che Luchino Visconti l’avrebbe voluto per Senso nel ruolo di bello e dannato che sarà di Farley Granger.

Un tram che si chiama desiderio

Negli anni sessanta il divo capriccioso e onnipotente contribuisce a modificare i rapporti tra gli attori e gli studios, ma – nonostante qualche titolo felice, da Riflessi in un occhio d’oro (1967) di John Huston e Queimada (1969) di Gillo Pontecorvo, in cui s’intravvede l’antico magnetismo – il declino sembra inarrestabile. La “rinascita” coincide con l’enorme successo di Il Padrino (1972) di Francis Ford Coppola. Il suo Don Vito Corleone, grazie al trucco pesante, la voce rauca, l’incedere solenne, è la strepitosa incarnazione degli aspetti mostruosi del capitalismo americano. Quando l’Academy gli assegna l’Oscar, al posto di Marlon a ritirarlo c’è Sacheen Littlefeather, una apache che legge la violenta requisitoria contro il trattamento riservato agli indiani scritta da lui.

Il padrino

Lo scandalo prosegue con Ultimo tango a Parigi (1972) di Bernardo Bertolucci, prima condannato al rogo e poi assolto, forse l’interpretazione più sottilmente autobiografica, in cui il suo americano in crisi è stato pugile, attore, suonatore di bongo, gangster nel porto di New York, rivoluzionario in Messico, giornalista in Giappone, ha vissuto a Tahiti. E con Apocalipse Now (1979), ancora di Coppola, incubica discesa agli inferi, dove il colonnello Kurtz svela il cuore di tenebra del potere, mentre l’interprete non esita a mettere in discussione il suo statuto divistico.

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