Lotta alla fast fashion: da Berlino la moda post Covid che punta anche al digitale. Colloquio con la prof Antonella Giannone

by Michela Conoscitore

Da un’indagine de Il Sole24ore è emerso che le perdite nel settore produttivo della moda made in Italy, durante la pandemia, sono risultate abbastanza pesanti rispetto ad altri settori produttivi: si è registrato un -28% per fashion e luxury nel primo trimestre del 2020, che è salito ad un -41% nel secondo trimestre dello scorso anno.

Tuttavia, la pandemia da Covid-19 si è andata ad innestare in un percorso già in divenire dove quest’ambito produttivo, a livello mondiale, stava ripensando ai propri stilemi per innovarsi: ecosostenibilità, lotta alla fast fashion e digitale, sono queste le parole d’ordine della moda post pandemia.

bonculture ne ha parlato con Antonella Giannone, docente di Teoria, storia e sociologia della moda alla Kunst-hochschule Weißensee di Berlino.

Nel mondo della moda pre – Covid quali erano tematiche e problematiche su cui si dibatteva? Quali percorsi si stavano iniziando a percorrere?

Si cominciava a delineare un’idea complessa di sostenibilità che comprendesse ambiti diversi: nuovi modi di produrre e consumare la moda, valorizzazione in chiave slow di eccellenze locali nel settore del tessile, ricerca di materiali biologici e biodegradabili fino all’idea radicale di una moda immateriale, fatta di vestiti interamente digitali, come quelli proposti dal marchio The Fabricant. Era, inoltre, in atto una presa di coscienza sempre maggiore delle condizioni etiche e sociali legate alla produzione della moda.

Qual è stato l’impatto, non solo economico, invece che la pandemia da coronavirus ha avuto sulla moda? Sarà diversa dopo il Covid e in che modo?

La moda ha continuato a porsi delle domande in relazione alle sue responsabilità, al suo ruolo sociale. Le domande a cui dare risposta sono diventate sempre più incalzanti nei mesi in cui ci si è dovuti fermare per forza di cose. L’interrogativo che oggi pesa più di è cosa fare per non far tornare tutto come prima, per avviare quei cambiamenti rispetto ai modelli di produzione e di consumo della moda che, già prima della pandemia, erano stati dichiarati come urgenze e che ora non possono più essere rimandati. Un altro ambito destinato a produrre molti cambiamenti dopo l‘esperienza della pandemia è sicuramente quello della rappresentazione e in generale della comunicazione di moda: la sperimentazione senza precedenti di formati digitali di ogni genere continuerà anche quando sarà possibile immaginare performance in presenza. Il digitale ha dimostrato di avere conseguenze non irrilevanti sui tempi della moda.  Anche le vendite online o le forme ibride di acquisto messe a punto in questi mesi continueranno ad avere un ruolo nella definizione del nostro rapporto con la moda.

La moda fast fashion vede protagoniste le masse: da Zara ad H&M, le grandi catene sono diventate delle leader in questa sezione commerciale. Ora, però, pare che un po’ tutti abbiano compreso meglio qual è l’impatto del fast fashion sull’ambiente, a cui l’insorgenza del Covid è strettamente collegato. Riusciremo ad abbandonare quel modo di fare moda e a riconvertirlo con una svolta green? In che modo attuarlo?

La risposta ad una domanda di questo tipo non può che essere molteplice. Non è solo il modo di produrre materialmente la moda che deve cambiare, ma anche il modo di pensarla e di viverla. Una svolta di tipo ecologico non può essere disgiunta da una riflessione profonda sul valore degli oggetti che consumiamo, da una diversa cultura della visibilità del lavoro dietro i nostri abiti, alla costruzione di rapporti economici e di potere meno squilibrati tra mondi solo apparentemente lontani, fino alla creazione di percorsi virtuosi di circolarità nel settore della moda. Tutte queste questioni si intrecciano necessariamente quando si auspica una nuova ecologia della moda.

La fast fashion è figlia della globalizzazione o altre circostanze l’hanno favorita?

È figlia di una globalizzazione che ha puntato tutto sulla massimizzazione dei profitti approfittando della povertà e della precarietà delle condizioni lavorative in alcuni paesi. È figlia di una generale devalorizzazione dei consumi di moda, sempre più improntati a modelli usa e getta, ma anche del divario sempre più grande tra ricchi e poveri nei paesi occidentali, tra i consumatori di moda. La fast fashion prevede e incoraggia acquisti ‘irresponsabili’ e poco pensati, nel senso che se si sbaglia, si può sempre procedere ad un nuovo acquisto. Questo incide ovviamente sul significato culturale dell’abbigliamento, sempre più privo di un valore materiale, emozionale, relazionale, sempre meno “oggetto”, sempre più superficie interscambiabile.

Moda sostenibile: in Italia uno dei principali ‘ambasciatori’ di questa nuova filosofia per le grandi firme è Salvatore Ferragamo. Quali sono le principali prerogative della moda sostenibile e quali sarebbero i vantaggi?

Le grandi firme – oltre che ad investire nella ricerca di materiali innovativi e organici – interpretano la sostenibilità puntando molto sulla narrazione del valore dei propri prodotti di moda. L‘idea, in sintesi, è quella di una moda che possa sfidare il tempo grazie alla propria qualità e che non perda velocemente appeal. Sulle reali possibilità di questo paradosso bisognerà riflettere molto. Altri marchi puntano invece sulla circolarità, sulla ri-creazione di abiti usati, come fa ad esempio Marine Serre, sul riutilizzo di materiali di scarto dell‘industria tessile. I vantaggi sono diversi a seconda dei percorsi scelti. In generale la moda sostenibile dovrebbe riuscire ad essere meno distruttiva in termini sociali, etici ed ambientali.

Lei insegna a Berlino, in Germania com’è percepita la moda green dai tedeschi? Quali sono le differenze in merito con l’Italia?

In Germania c’è forse un maggior senso di responsabilità nei confronti di cosa e come si consuma, ma anche di quanto si consuma; un atteggiamento da parte di molti, soprattutto tra i giovani, più radicale e coerente nel rifiutare determinati marchi e produzioni note per non essere ecologiche, etiche ecc. In Italia c’è una tendenza maggiore ad autoassolversi o a decidere dei propri consumi in maniera più impulsiva e flessibile, a seconda delle circostanze. A Berlino, per chi cerca e chi vuole, c’è un‘offerta vasta di moda ecologica e sostenibile, a partire dall’abbigliamento dei bambini, oltre che di iniziative volte a riusi creativi di quello che non indossiamo più. Il vintage si presenta inoltre in forme molto curate che invitano all’acquisto di moda ‘usata’.

I suoi allievi si dimostrano sensibili a queste tematiche? Quali sono i pareri in merito delle generazioni più giovani?

Un interrogativo che ricorre spesso tra i miei studenti nel contesto di queste tematiche, e che in questo periodo, nel mezzo della pandemia da Covid-19, è diventato sempre più pressante, è quello di come dare un nuovo senso al proprio corso di studi. Una domanda che diventa spesso esistenziale: che senso ha studiare moda, disegnare e realizzare nuovi vestiti quando il mondo ha bisogno urgente di averne sempre meno? Le risposte a questi interrogativi in un contesto così creativo sono diversissime. C’è chi si concentra sullo sviluppo di nuovi materiali, chi, nella prospettiva del critical design, su una moda che non mira ad essere realmente prodotta e indossata, ma a divenire manifesto critico o a sconfinare nell‘arte. C‘è chi invece si ingegna nella realizzazione di oggetti di moda polifunzionali che possano cambiare la propria funzione nel tempo e nelle situazioni.  La questione è ad ogni modo centrale in qualsiasi progetto.

A proposito di moda sostenibile, hanno riscosso un enorme successo i celebri guanti del senatore statunitense Bernie Sanders, indossati durante il giuramento del neo eletto presidente USA, Joe Biden. I guanti, creati da una maestra elementare del Vermont con lana riciclata da maglioni usati, sono diventati richiestissimi. Perché quei guanti hanno attirato così tanto l’attenzione della gente?

I guanti di Sanders erano in forte contrasto con quello che potrebbe essere definito un abbigliamento da cerimonia, che invece la maggior parte dei partecipanti noti aveva adottato per l’occasione, anche se in modi molto diversi tra di loro. Quei guanti di lana pesante e dalla forma essenziale sono diventati virali per questa sorta di dissonanza estetica che, in un contesto come quello della cerimonia di insediamento di un nuovo presidente, ha assunto il valore di statement, di atto significativo di non adesione alle convenzioni che alcune situazioni prevedono.

La moda, oggi, come può veicolare messaggi politici?

La moda ha sempre veicolato messaggi politici, in maniera molto diversa a seconda dei contesti storici, interpretando di volta in volta dissenso, adesione, veicolando conflitti di ogni tipo come quelli di classe, generazionali o ideologici, evocando immaginari utopici o distopici. Oggi si registra, tuttavia, un ruolo sempre più esposto della ‘corporeità’ in tutti i contesti politici e, di conseguenza, l‘attribuzione di un significato sempre più importante ai segni dell’abito nell’espressione di una posizione politica, di un‘opinione, di un’idea.  Difficile oggi per gli uomini e per le donne impegnate in politica essere considerati a prescindere da cosa indossano, impossibile per loro scampare all‘interpretazione o alla sovrainterpretazione puntuale della scelta di un colore, di un marchio, di un simbolo o anche di un singolo gesto o dettaglio.

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