Maus, il fumetto sull’olocausto e il dramma della post-memoria

by Gabriella Longo

Ci sarebbe da chiedersi se per l’umanità, dopo il Novecento, sia mai arrivato Godot. O se forse si è ancora sospesi in una zona grigia nella quale si è consci dell’importanza di dover ricordare, senza sapere davvero che cosa, e aspettare, non si sa bene chi. Muore la tragedia, per qualcuno persino Dio, più avanti finiscono le narrazioni, e il male diventa banale, e una parte della Storia, e della sua comprensione, sfugge inesorabilmente. Alla faccia del secolo breve.

Nel 1992 Maus è il primo fumetto a vincere un premio Pulitzer. Il suo autore, Art Spiegelman ci mette vent’anni a scriverlo e disegnarlo: per la prima volta compare a puntate sulla rivista Raw (fondata dallo stesso Spiegelman e da sua moglie Françoise Mouly) nel dicembre del 1980, ma il progetto di un volume unico era in cantiere sin dai primi anni Settanta, quando Spiegelman decise di intervistare suo padre Vladek, ebreo di origini polacche, sopravvissuto all’Olocausto.

Insomma, non riesco neppure a dare un senso al rapporto con mio padre… come posso dare un senso ad Auschwitz?…All’Olocausto?..”.
(Maus II, p. 170)

La storia di Maus, consacrato come pietra miliare del medium fumettistico, si articola su assi diegetici differenti, ricalcando la struttura complessa dell’autobiografia e dello spazio mentale della narrazione e del ricordo. Linee temporali si incrociano, quella del presente di “Artie”, che irrompe nella monotona vita del vecchio padre per stimolarlo al racconto, e quella del passato, appannaggio dell’unico cantore possibile, Vladek, che mette in moto la sua bicicletta, un esercizio utile ad un anziano ipocondriaco, e simbolico avvolgimento di un nastro di ricordi. Mai così bene un medium, restato con forza dentro alla sua coriacea pelle di carta, è assomigliato tanto ad una pellicola, che scorre sotto i nostri occhi dal momento dell’idillio giovanile di Vladek e sua moglie Anja (precedente all’occupazione nazista negli anni ’30), passando per la loro deportazione nel campo di Auschwitz sino alla loro liberazione.

La storia, comunque, che trascende i bordi della geografia spaziale della pagina e andrà avanti nella vita, vedrà il suicidio della moglie di Vladek e costerà un esaurimento nervoso allo stesso Spiegelman. Ecco che il fumetto, per sua natura, mezzo “apocalittico e integrato”, come appellato da Umberto Eco negli anni ’60, diventa narrazione perfetta per parlare di “post-memoria”.

Si riaffronta l’apocalisse per antonomasia del XX secolo, rappresentata dall’Olocausto, e si ripercorrono le tappe di una integrazione, psicologica e sociale, che avviene a fatica perché permette a passato, presente, e persino al futuro, di essere reali, talvolta compresenti sulla stessa pagina, e suggerendo, così, non solo un continuo sconfinare di un tempo nell’altro, ma rendendo immediatamente evidenti gli effetti di quel passato sul futuro dell’intera famiglia.

Maus si colloca, allora, proprio come un faro in quella zona grigia di attese e confusione, superando non solo ogni retorica della vittima, ma restando lontano da un universo valoriale, quale quello dell’Olocausto, ormai di dominio collettivo, passato attraverso un numero considerevole di usitati stereotipi, e spesso ristretto ad un repertorio di modelli che trascendono e collassano il suo significato più profondo. Facendo perdere di vista cos’è giusto davvero ricordare, e ponendo in essere la domanda sulla legittimità dell’appropriazione di quel ricordo da parte dei media stessi, essendo l’Olocausto, considerato il principale evento responsabile della più grande crisi della rappresentazione del nostro tempo (da Adorno, sino a Levi e La Capra).

Come ci riesce Maus? In primis, attraverso un espediente grafico semplice, identificando i protagonisti come degli animali antropomorfi (topi gli ebrei, gatti i tedeschi, maiali i polacchi). Questa scelta, che devia il più comune processo di immedesimazione e distrugge la retorica vittima-carnefice così radicata, è un vero e proprio ingresso privilegiato del senso, una scorciatoia che scansa la catarsi e porta dritta, a discapito della natura animale dei personaggi, ad un luogo di rara e tenera umanità. Aveva ragione Umberto Eco a scrivere “(…) a poco a poco si entra in questo linguaggio di vecchia famiglia dell’Europa orientale, in questi piccoli discorsi fatti di sofferenze, umorismo, beghe quotidiane, si è presi da un ritmo lento ed incantatorio, e quando il libro è finito, si attende il seguito con la disperata nostalgia di essere stati esclusi da un universo magico”.

Vladek, strisciando, infilandosi, nascondendosi proprio come un topo, è sopravvissuto, ma è pieno di rovelli mentali, di tare, di fisse, ed è persino definito “assassino” da suo figlio Art (a conclusione della prima parte, pp. 156-157), quando quest’ultimo gli chiede di cercare i diari della madre e quello ribatte, col suo parlare incerto: “No, non troverai. Perché io ricordo cosa è successo. Questi diari e altre belle cose di tua madre…una volta aveva pessima giornata… e tutte quelle cose io ho distrutte.”

Art è un sanzionatore, un figlio che, come chiunque non abbia diretto accesso a quella memoria traumatica, ne possiede solo gli elementi pubblici, mediali, collettivi. Ma è proprio il suo complesso rapporto col genitore a restituire il più importante motivo di interesse e che qualifica Maus come molto altro rispetto ad un’altra storia sulla Shoah. Esso è, prima ancora, il racconto della tragedia di una famiglia scampata alla barbarie, ma non a quello ch’è venuto dopo. C’è la vergogna di Vladek, che ha seppellito l’amore della sua vita, e c’è l’ancora più profonda ed insolubile inadeguatezza dei figli e di tutti quelli che non c’erano, che non hanno visto, ma che hanno soltanto ascoltato, condannati a un conflitto edipico irrisolto e impossibile da vincere. La colpa è quella di non poter colmare in alcun modo lo spazio che li separa dalla generazione dei padri e di sentirsi, rispetto ad essi, completamente indegni, impreparati, nonché incapaci a riceverne quell’inspiegabile ed insensata eredità.

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