A te gli occhi – intervista a Daniela Lucangeli

by Enrico Ciccarelli

Sul sito della Mondadori, la casa editrice di “A mente accesa, il libro maggiormente suffragato dalla giuria popolare dell’edizione 2021 del premio “I fiori blu”, la biografia di Daniela Lucangeli occupa, come sintesi impone, poche righe. Sono quelle necessarie a informarci che è docente di Psicologia dello Sviluppo all’Università di Padova, che è esperta di strategie di supporto all’apprendimento e ai disturbi e del neurosviluppo, autrice di numerose pubblicazioni scientifiche in ambito nazionale e internazionale, presidente di Mind4Children e membro di varie Accademie e organismi. Ma è un po’ come dire che Cristiano Ronaldo è un giocatore di calcio che ha il ruolo di attaccante.

Perché Daniela Lucangeli, e il consenso riscosso dal libro ne è indiretta testimonianza, è una scienziata di grande competenza e prestigio che ha scelto i bambini, quegli esseri umani la cui psiche vive una plasticità senza confronto rispetto a qualsiasi altro momento della vita, in cui il rapporto e le interazioni fra il genoma e l’epigenoma, fra predisposizione genetica e ambiente, è particolarmente delicato e fervido. Lucangeli ha un’invidiabile capacità di legare cognizioni teoriche e ricerca con l’esperienza sul campo, facendosi in qualche modo contaminare dalle bambine e bambini con cui viene in contatto (in vario modo simili alla “bambina ipersensibile” che lei stessa è stata) e divulgando infaticabilmente con conferenze, interventi e filmati, le storie di cui è parte. “Daniela Lucangeli, proprio aiutando sul campo i ragazzi in difficoltà, è diventata un punto di riferimento della comunità scientifica: raramente trovo testa e cuore così uniti e sono le persone da cui imparo di più.” ha scritto Alessandro D’Avenia sul Corriere della Sera recensendo il volume cui i lettori de “I fiori blu” hanno consegnato il primato. Sottoscriviamo.

Professoressa Lucangeli, nel suo libro “A mente accesa” sembrano avere pari importanza e dignità le acquisizioni delle neuroscienze, le tecniche di attenzione di cura e la relazione umana con i bambini in difficoltà. Era questo il suo intento?

Il mio intento è quello descritto nel titolo. Sa, quando accendiamo la luce vediamo le cose come sono, e non le scindiamo se vediamo un albero o un prato o una casa. È l’intero che dice dove siamo. Così è nella scienza. Ci sono le informazioni che ci arrivano dalle neuroscienze, ma anche quelle che da milioni di anni evolutivi sono le nostre comunicazioni umane, che sono state capaci di portarci fin qui. Quindi cosa ho voluto dire? Non scindiamo, ma arricchiamo ogni qualità attraverso il processo educativo. Sapere con la scienza ci aiuta ad avere delle indicazioni chiare, ma aprire anche alle nostre qualità nella comunicazione autentica, più profonda, che io chiamo della humanitas, è indispensabile. Altrimenti adoperiamo solo la via cognitiva e razionale, che non è sufficiente. È necessaria, ma non sufficiente.

Lei sostiene che nella sigla DSA, Disturbo Specifico dell’Apprendimento, si dà troppa importanza al disturbo e troppo poca all’apprendimento. Che significa?

Sono rimasta colpita da un messaggio che mi è arrivato da un ragazzino con un Disturbo Specifico dell’Apprendimento che mi ha chiesto perché li chiamavamo disturbi. Se dipendeva dal fatto che disturbavano noi,  che dovevamo in qualche modo aiutare loro, o se li chiamavamo così perché disturbavano loro, i bambini. Perché capire dov’è che vediamo il disturbo e chi viene disturbato, cambia completamente la nostra posizione. Perché se noi li chiamiamo disturbi perché danno fastidio ai bambini noi dobbiamo combattersi e aiutare i bambini. L’alleanza è quindi ìcon il bambino contro la fatica. E a me questo approccio ha cambiato completamente la visione.

Uno dei momenti cruciali del suo libro descrive il momento nel quale si è abbassata per guardare negli occhi di un bambino problematico che era circondato da adulti che lo sovrastavano. Perché è l’atteggiamento giusto da tenere?

Perché in quel passaggio io racconto che questo bambino, in un corridoio verde di ospedale, con tanti adulti intorno, guarda me semplicemente perché io mi sono abbassata e gli ho sorriso. Quindi ritrova un principio, in questo caso io dico proprio della filogenesi di specie. ‘Sei importante per me’ gli hanno detto quello sguardo e quel sorriso. Lui è venuto verso di me e mi ha chiesto aiuto, mi ha detto ‘Aiutami’ Io allora mi sono detta che i sistemi di aiuto non possono essere una semplice addizione delle figure di riferimento, Bisogna riuscire a trasmettere davvero “I care..” mi stai a cuore. Se un bambino non si sente guardato da qualcuno che si mette alla sua altezza e lo guarda negli occhi, non potrà funzionare.

Nel libro, parlando di una esperienza personale sua e di suo fratello, denuncia “una certa qual arroganza” di insegnanti e specialisti che vi faceva sentire, anziché aiutati, compresi e supportati, “valutati, giudicati e ingolfati di diktat”. Secondo lei questo atteggiamento è ancora presente o prevalente nelle nostre scuole?

Il tema è complesso. Connettersi significa ascoltare l’altro, ma essere anche ascoltati. Quello di cui mi sono fatta carico in questi anni, parlandone, è che bisogna rieducare la psiche degli adulti, a riconoscere questi aspetti come fondamentali per star bene. Non è possibile pensare che, visto il silenzio del linguaggio antico delle emozioni sia possibile soltanto con la buona volontà riattivare questa comunicazione profonda. Non è così; per riattivarla bisogna spolverare –sì proprio togliere la polvere- dai circuiti emozionali della relazione. Per questo serve un’educazione alla psiche, che è quella su cui io conto. Quindi cosa possiamo dare agli insegnati come indicazione? Diciamo loro Guarda che così possiamo cambiare il futuro di tutti. Dacci una mano fallo per te, fallo per il futuro che stiamo attraversando. Quanto alla situazione che descrivo nel libro, la stiamo pagando. Ma non mi pongo di fronte a essa con un giudizio, bensì con distanza. Non ci riguarda. Non vogliamo essere così.

Nella disputa sul rispettivo ruolo della genetica e dell’ambiente nel determinare chi siamo, lei sembra protendere decisamente verso il secondo. È così?

Nella disputa tra nature e nurture fra genetica e ambiente sono su una posizione che in questo momento non è –diciamo così- molto di moda. Ritengo non sia solo la genetica a influenzare l’ambiente, ma che anche viceversa. Perché la genetica si trasforma sulla base delle informazioni che riceve. Non voglio annoiarla con le dispute fra selezione ed evoluzione, sulla differenza fra l’impostazione darwiniana e quella lamarckiana che mi convince di più. Mi limito a spiegare perché io protendo per l’ambiente. La questione fondamentale è che abbiamo a che fare con “l’età plastica” della psiche dei bimbi, potente più di quanto potrà mai essere per tutto l’arco della vita. Se gli insegnanti, i genitori, gli operatori dell’educazione capiscono quanto sia fondamentale nutrire il sistema di crescita, comprendono come le informazioni che i bambini ricevono raddrizzano la pianta, modificano la traiettoria del suo fiorire. In questo senso cerco di far capire l’importanza dell’ambiente, che non è un sistema altro da noi stessi. Noi siamo l’ambiente e riceviamo informazioni che ci nutrono.

Lei dice di essere stata una bambina lievemente bizzarra perché si chiedeva continuamente “Cosa c’è sotto? Cosa c’è dietro?”, con un tenace desiderio di aumentare il livello di approfondimento della conoscenza. È pronta a rispondere alla domanda “Cosa c’è sotto Daniela Lucangeli”?

C’è quello che mi ha scritto un bimbo. Siccome avevo mancato verso di lui, non avendolo accompagnato a ritirare un premio per i rilevanti progressi fatti, mi ha scritto so che non hai tempo di guardare, ma se vai a vedere la mail dello scorso anno e questa che ti sto scrivendo ora e conti gli errori, ti sarà facile accorgerti che non hai studiato invano. Ecco, questo bambino mi ha guarito. Cosa c’è sotto Daniela Lucangeli adesso? C’è questo. Non aver studiato invano.

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