Abbandonare un gatto: leggere il nuovo Murakami per non perdere di vista la Storia di ognuno di noi

by redazione

Ai tempi di “Chourmo”, Jean-Cluade Izzo, scrittore e poeta di Marsiglia scrisse: “Al terzo pastis, gli avevo detto che rifiutavo l’idea che la Storia fosse l’unica forma di destino”.  Non c’è ovviamente militanza politica nell’ultimo libro di Murakami Haruki, a differenza dei noir di Izzo o del cinema francese in cui si muove il suo personaggio letterario, Fabio Montale.

Ma c’è come nella grande letteratura, l’impressione che storia personale e anima politica, quell’indagine e ricerca critica relativa ad una ricostruzione ordinata di eventi umani universali, siano sempre congiunte in un unicum che non solo scava la narrazione di un popolo o di un continente, ma che trasforma la crescita individuale di un essere umano “comune”. E’ con questo che Murakami gioca da sempre, nei suoi racconti, nelle sue opere letterarie più vaste, annettendo “le sensazioni” e i contesti intimi di una comunità e di un soggetto “comune” con la storia della propria Patria, il Giappone.

“Una delle cose che ho voluto dire in questo testo è che la guerra provoca, nella vita e nello spirito di una persona- di un anonimo, comune cittadino-, enormi e profondi cambiamenti. Cambiamenti di cui io, così come sono qui adesso, costituisco il risultato. Se il destino di mio padre avesse imboccato una strada diversa, non sarei esistito. La storia è questo: l’unica eventualità, fra innumerevoli altre, che si è attuata, senza se e senza ma.

“Abbandonare un gatto” parte da un’esperienza di abbandono nella storia dell’ancor piccolo Murakami. Illustrato da Emiliano Ponzi che ha collaborato con il “New York Times”, con il “New Yorker”, il “Guardian”, e testate italiane come la “Repubblica” e “Internazionale” e scritto sotto forma di “piccolo opuscolo”, di breve raccolta e di inedita biografia, sembra essere qualcosa di diverso, apparentemente forse, una chiusura del cerchio di un frammento di vita del proprio scrittore, che traccia l’esperienza vitale e professionale di suo padre, con la sua parola cristallina, che prende forma tra le illustrazioni pagina dopo pagina, in un’estensione quasi liquida di grande ingegno e semplicità.

A volte,”Abbandonare un gatto” si attiene precisamente alla carriera militare e intellettuale di suo padre, passa da piccoli intermezzi specifici come fossero annali a divagazioni intime, aneddoti che interagiscono perfettamente con i “nessi” della Storia di un paese e della storia di un figlio e del proprio sangue.

Parte infatti proprio da un aneddoto, il nuovo libro di Haruki Murakami edito da Enaudi. Un gatto che, senza apparente ragione, lui e suo padre in una mattina in bicicletta abbandonano in un cartone, sotto l’immobilità del sole. Il gatto prima del loro ritorno verso casa, si farà aspettare sulla soglia, con una precisione quasi studiata, ripresentandosi alla casa di chi l’aveva appena abbandonato. Da qui Haruki, con la solita compostezza letteraria, con il suo temperamento “trasparente” di scrittore chiaro e autentico, parte da un semplice evento per raccontare la sua paternità, tra lontananza, smarrimento e riconciliazione arrivata (forse) troppo tardi sul letto di morte di suo padre. Parte da un presupposto “estraneo” narrativo e trascende sull’avvento di quell’abbandono per rammentare la sua vita fatta di excursus, come “la vita pensata” di tutti quando ci si guarda nel proprio passato. Si riallaccia al suo ricordo frammentato di figlio e di futuro scrittore, che non aveva mai aperto la sua letteratura alla storia familiare e intima di ciò che lo rende personaggio “storico” a tutti gli effetti: il suo albero genealogico e il suo dna.

Perché usare il pretesto di un gatto? Perché parlare di suo padre da quel giorno anziché da un altro? Entra in gioco così quella che è la “memoria” di un essere sociale, aprirsi ad un ricordo annettendone un altro.
Così ci si ricorda chi siamo e da dove proveniamo!, sembra dirci Murakami con sveltezza.

Una semplice ricreazione “sognante e visiva” di un gatto in un cartone, riporta vecchie ferite, da inizio tramite “un’azione comune di abbandono” alla narrazione realistica e paratattica di un uomo che prima di essere padre, partecipa per più di una volta alla prima e la seconda guerra mondiale, in diversi reggimenti della sua Nazione in guerra contro la Cina. Lo scrittore giapponese sembra raccontare la storia del proprio Paese con quella che si definirebbe un’associazione di idee, partendo da un gatto, ci racconta gli anni di una vita come tante altre, tra prese di posizioni decisionali, che avrebbero potuto cambiare la vita dello stesso scrittore, che forse senza quelle scelte paterne, non avrebbe mai visto la luce.
Un memoriale dove il destino si rapprende e si conquista pagina per pagina, dove la Storia è quasi un ricordo disattento di un figlio, e di uno scrittore, impossibilitato a muoversi tra le parole senza emotività, che abroga eventi, cambia di pagina in pagina spirito di ricostruzione. Perché Murakami prima di essere un cronista è prima di tutto parte di un contesto e di una storia personale, che ha bisogno di un ricordo sbiadito per approdare nel “vero” di una storia di formazione. “Io avevo solo nove anni, ma quella scena ce l’ho ancora in mente”. Una scena che mi colpì come se l’avessi vista al cinema in un film in bianco e nero. […] Per lo meno ebbi questa impressione.]  Murakami non ha perso mai l’esigenza nell’essere voce propedeutica che solo a tratti sembra rivestita di soluzioni “casistiche” nei propri intrecci e nei propri interessi di scrittore. Non ha mai perso l’occasione di parlare del proprio Paese e del mondo storico, interagendo con lo spirito dei nostri cuori. Sembra dirci che per essere ciò che siamo oggi, dobbiamo salvaguardare la memoria di un universo, l’articolazione refrattaria di ricordi che insieme possono raccontarci e “sfibrarci” pian piano da quella che è l’invisibilità nell’essere uomini “comuni”, ma soprattutto da quello che è il buio attraverso cui non ricordiamo le atrocità.

Giammarco Di Biase

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