“Emanuele nella battaglia”: un dialogo con Daniele Vicari

by Felice Sblendorio

Serviva un regista come Daniele Vicari, con la sua potenza immaginaria e visiva, per raccontare la violenta agonia di Emanuele Morganti, il ventenne picchiato e ucciso davanti a una discoteca di Alatri nella notte fra il 24 e il 25 marzo 2017. Serviva il regista di “Diaz”, “La nave dolce”, “Il passato è una terra straniera” per indagare la realtà e la radice primordiale e “spettacolare” del male.

Serviva un brutale assassinio senza movente né senso per affogare nei fondi oscuri della cattiveria: che nella grande provincia italiana è potere, sopraffazione, grammatica usuale di violenza dove i codici di condotta non sono mai scritti ma sempre determinanti. Necessitava il racconto di questo magma sociale e carnale “Emanuele nella battaglia” (Einaudi Supercoralli, 376 pagine, 20 euro), l’esordio letterario di Vicari, che sarà presentato oggi alle 17.00 alla Feltrinelli di Bari, in un tentativo profondo e acuto di ricomposizione e sollievo, di cura, racconto e pensieri su un fatto di cronaca che, oltrepassando il basso continuo cronachistico e spettacolarizzato dei fatti, si trasforma in un dispositivo di riconoscimento. Cosa siamo noi e loro, ma soprattutto cosa siamo noi fra loro, il nostro candore e il loro buio: nelle battaglie, come quella di Emanuele, è tutto. bonculture ha intervistato Daniele Vicari.

Emanuele nella battaglia” è il suo tentativo di raccontare una tragedia e di capire, dopo le luci della ribalta, che rumore faccia il silenzio di un dolore. Perché proprio la storia di Emanuele?

Quando fu ammazzato Emanuele ho vissuto la sensazione di essere travolto da un avvenimento tanto grande da modificare la mia collettività. Emanuele veniva a caccia con suo padre nel mio paese d’origine, Collegiove, un microcosmo di montagna, e viveva a Tecchiena di Alatri, 130 chilometri più a sud, un altro microcosmo. La sua uccisione ha estremizzato comportamenti, attitudini, pregiudizi, rabbie e più raramente solidarietà da parte dei nostri concittadini. Conoscevo Emanuele fin da ragazzino, era amico dei miei nipoti, cliente affettuoso e affezionato di mia madre, che gestisce l’unico locale pubblico del paese, così ho pensato che fosse giusto raccontare “a noi stessi” come e perché la nostra collettività produca quei comportamenti e perché poi non li elabori o semplicemente non li capisca, come fossero accaduti dall’altra parte del mondo.

In queste pagine cerca di individuare quale sia la radice del male e da dove venga la cattiveria che ha colpito Emanuele. L’ha trovata?

Direi che è sotto gli occhi di tutti, e anche dentro noi stessi. Chi la esercita vi trova una perversa forma di autoaffermazione sotto le spoglie di un adrenalinico piacere di “dominio”, chi invece resta lì a guardare lo spettacolo e non interviene, il “male” lo ha dentro di sé. Una nevrosi, come diceva Dylan Thomas, che ci cresce dentro e accanto.

In tre capitoli, come una partitura, racconta il “sabba della violenza”, il calvario che Emanuele subì quella notte. Nel racconto c’è chi resta fermo e chi picchia fino ad uccidere in una dimensione quasi surreale. Ma una vita che sfuma può diventare uno spettacolo, qualcosa di così irrilevante da contemplare solo l’osservazione come fine ultimo?

Questo è l’esperimento gestaltico, basato sullo stravolgimento della percezione del reale. Ho sempre di più la netta sensazione che “lo spettacolo” contribuisca a determinare quei comportamenti, in un gioco perverso di realtà e rappresentazione che punta a squalificare continuamente ogni strumento di analisi. In questo senso la descrizione della nostra società come “società dello spettacolo” sta diventando via via più precisa, inoppugnabile, quanto meno aderisce a ciò che chiamiamo “la nostra società” come un guanto, perfettamente. Non è un caso che il filosofo che ha avuto questa lucida e potente intuizione si sia sparato un colpo di pistola al cuore. La lucidità analitica pare faccia male a chi le esercita fino in fondo.

Sembra che il suo viaggio in questa drammatica storia, che va oltre lo stabilire responsabilità e pene, sia dentro il senso, paradossalmente dentro la ragione di quel pestaggio di gruppo. L’ha trovata una possibilità per donare una ragione umana a quella morte?

Temo che la “ragione umana” in questa tragedia che ha inghiottito Emanuele, e con lui la sua famiglia e i suoi amici, si prenda una vacanza dall’umano stesso, se per umano intendiamo la faticosa costruzione della “società civile”. Vedo certe tendenze della cultura contemporanea, che si esercitano a sprofondare nell’istintualità, nell’archetipico, nel brodo primordiale che prorompe superando la faticosa costruzione della convivenza sociale, molto apprezzate. Penso che, come si dice dalle mie parti, si può decidere di pulirsi il naso con una schioppettata, ma prima di fare un gesto così gravido di conseguenze, si può quantomeno parlarne.

Nella sua cinematografia, se penso a “Diaz”, la violenza è costante. Nel libro si pone molte domande sul senso del suo mestiere: crede che un immaginario simbolico che rappresenti in modo avvincente la grammatica della violenza influenzi i comportamenti sociali?

Chi sa costruire l’immaginario ha un potere immenso. Il cinema e la tv sono considerate industrie strategiche dagli stati di mezzo mondo. I regimi più o meno autoritari finanziano anche i film dei loro nemici politici pur di mettere la bandiera nazionale sulle locandine e i trailer. Detto questo, se pensassi che il cinema non serve a nulla, sceglierei soggetti meno faticosi da realizzare. In merito alla rappresentazione della violenza credo sia un eterno falso problema generato da false premesse: la violenza, l’amore, il sesso, la morte, il bene, il male sono temi ineliminabili dalla nostra vita, quindi lo sono anche nel cinema. Quando si fanno questi discorsi, si fa finta di non sapere che il problema è come, a che scopo, con quale consapevolezza un regista filma uno stupro o un omicidio. Parlo di consapevolezza linguistica, intenzione, oppure “sguardo” come dicono i francesi. Se la violenza edulcorata dei gangster movie, che utilizzano tecniche assai sperimentate di rimozione della tragicità, serve a vendere qualche biglietto in più non saprei dirlo, certamente eludere domande radicali permette di non rompere le scatole a nessuno, tantomeno al povero spettatore che ha pagato per sentirsi dire che ha ragione lui e vive in un mondo di lupi pronti ad azzannarlo al collo. Se poi tu, regista o sceneggiatore, racconti la violenza scindendola dall’esercizio del potere che sempre la accompagna, allora stai facendo propaganda ed è bene tu lo sappia. Da questo punto di vista mi considero un seguace di Pippo Fava: la mafia non esiste se non in simbiosi con il potere, e viceversa.

Grazie a Melissa, la sorella di Emanuele, la sua è anche una storia di donne che vivono il proprio lutto cercando un’unica verità. Quant’è difficile, nel mezzo di un dolore così insistente, avere fiducia negli altri, in una comunità, in una somma di convenzioni non scritte che reggono il nostro modo di stare “insieme”?

È difficilissimo, ma la storia di Melissa dimostra che non solo è possibile, è anche salvifico per una società complessa e stratificata come la nostra avere soggetti capaci di reagire all’ingiustizia praticata da pezzi della società come mafie o delinquenza comune o peggio delle istituzioni. Persone come Melissa e Lucia ci indicano una strada, una possibilità di mutare in meglio le nostre vite, perché non tacciono, non subiscono passivamente, combattono, chiedono giustizia e verità. Ecco perché la loro battaglia, nel nome di Emanuele, è vitale. Com’è vitale la battaglia dei Regeni, dei Cucchi, degli Aldovrandi.

“Se lo scegli, stare da solo è la cosa più bella del mondo, ma è strano il fatto che, se non lo scegli, se ti lasciano solo, allora è la fine”, scrive nell’ultima pagina del romanzo.Se pensa alla solitudine di Emanuele qual è, da uomo e da padre, il tassello non pacificato di questa tragedia?

Il primo tassello non pacificabile è forse il rapporto tra padri e figli che salta fuori negli atti e nel processo. La presenza dei padri sul luogo del delitto, per esempio, temo autorizzi i figli a lasciar cadere tutti i freni inibitori. È una responsabilità “morale”, non penale ma, come sappiamo tutti, in nome della morale di gruppi sociali ristretti come le mafie, o di idee politiche basate sull’appartenenza, o persino la superiorità della razza sono state compiute nefandezze di ogni sorta. Così persino nel nome di Dio cattolico che dovrebbe invece rappresentare misericordia e amore. Quando si tratta di praticare mostruosità la fantasia prende il potere. Il secondo tassello che manca è la caparbietà di raccontare fino in fondo le nuove forme di conflitto sociale, che non si esauriscono nella sordida guerra tra bande di quartiere, cinquant’anni in ritardo rispetto alla New Hollywood che, basti pensare ai primi film di Monte Hellman, Martin Scorsese, Terrence Malick, non si limitavano ad illustrare il precipizio della loro società. Forse perché non si sentivano superiori rispetto ai propri contemporanei e sapevano guardarli con un pizzico di sana “cattiveria” o quantomeno non facevano monumenti ai mafiosi, come invece ha saputo fare alla perfezione Coppola, un loro grandissimo collega coevo che invece, ciecamente innamorato dei suoi personaggi, li ha immersi fino ad affogarli nella nostalgia del patriarcato siculo fatto di limousine doppiette e somari sempre bardati a festa. Il contraltare di Coppola fu però Kubrick che mise in discussione il suo amatissimo “Arancia meccanica” per molto ma molto meno. “Arancia meccanica” è una meravigliosa tragedia senza dio, “Il Padrino” una straordinaria allegoria senza coscienza: ma questo è un altro discorso.

You may also like

Leave a Comment

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.