Gli spatriati di Mario Desiati: «Spatriato è il giudizio degli altri quando non sanno dove metterti nel loro mondo»

by Felice Sblendorio

A Mario Desiati non piace la definizione di romanzo generazionale: «Penso che tutti i romanzi possano essere definiti generazionali». Il suo “Spatriati” (Einaudi, 288 pagine, 20 euro), libro finalista e favorito al Premio Strega, racconta e indaga come pochi il fuoco e le passioni dei suoi coetanei: irregolari, mai contenti, sempre altrove. Spatriati, nella Martina Franca in cui è nato l’autore, significa questo: senza patrie, inquieti. Parola che non distingue tra maschile e femminile: indica l’essere umano, in un riflesso di modernità che solo il dialetto, lingua antica, può restituire. Francesco e Claudia, i protagonisti, cercano un loro posto nel mondo allontanandosi e riavvicinandosi alla loro terra, la Puglia: fuggono e ritornano alla ricerca di se stessi, di una forma di libertà nuova, di sentimenti che possono permettersi il privilegio di non possedere nomi. bonculture ha intervistato Mario Desiati.

Spatriati” è un romanzo che si regge quasi per intero sulla voce dei due protagonisti. Come ha trovato la voce giusta per Francesco e Claudia?

Quando comincio a scrivere un libro mi chiedo sempre: chi è la voce della storia? Il chi e il come. In “Spatriati” c’è una prima persona sporca, che poi arriva quasi a una terza quando parla Claudia. La prima persona di Francesco, che è un po’ anche la coscienza della sua amica, ci permette di scoprire in profondità l’altra protagonista del romanzo. Ho bilanciato le due voci in questo modo.

La loro è una storia di liberazioni, di inquietudini, di desideri.

Spatriati” parte dal concetto di patria e dalle patrie che i due protagonisti riconoscono. Il concetto di patria è un concetto geografico con una struttura, una lingua, dei costumi e degli usi ben delineati. Lo spatriato, invece, è colui che va via, colui che abbandona e tradisce le patrie, tutte le terre dei padri da cui ci si può emancipare.

Quali?

Le patrie delle convenzioni, delle idee comuni, delle credenze della maggioranza. Spatriato è il giudizio degli altri quando non sanno dove metterti nel loro mondo: e più quel mondo è piccolo e più è facile essere giudicati in quel modo. Claudia si distingue subito dalla maggioranza. Ma questo non ha un valore positivo. Io non do mai patentini morali nei miei romanzi, non c’è mai un giudizio nelle cose che racconto, mi piace di più indagare l’ambiguità delle vite. La patria di Claudia, semplicemente, non è la stessa di chi nega la propria verità: il suo posto è da un’altra parte.

Per Francesco, invece, è Claudia la sua patria?

Claudia ha individuato e, innanzitutto, ha capito che c’è una strada da percorrere. Francesco, invece, non la vede e per tutta la vita cerca un posto in cui stare. Comprenderà, poi, che la sua patria è un legame, una connessione. Il suo posto nel mondo è la relazione con Claudia. Che non è un amore classico, ma un esercizio spirituale dell’amicizia. Un rapporto che non ha nemmeno un nome, non ha ruoli, ma si muove in uno spazio libero in cui vivere relazioni e sentimenti privi di insegne.

Loro non cercano nemmeno un nome per le cose che succedono, per gli amori che incontrano.

Sono identità sessuali non conformi. Montaigne diceva che il sesso fa paura perché è un abisso, ma bisognerebbe accettare la propria identità sessuale in maniera naturale. Spatriato è un termine che introduce anche una sfumatura ulteriore al tema della fluidità e all’idea che ci possano essere persone che, in diverse fasi della loro vita, sono eterosessuali, omosessuali, bisessuali, asessuali. Il movimento LGBT+ contiene e rappresenta diverse sigle per includere più persone possibili. Il tema dell’inclusione è un tema che spesso viene usato in modo divisivo, ma in realtà è una delle poche cose che dovrebbe unire tutti.

Un’altra gabbia è quella del patriarcato. Quali limitazioni subiscono di quel sistema sociale?

Claudia e Francesco comprendono che il patriarcato è una delle loro gabbie. Francesco vive in una società costruita a misura di maschio. Il patriarcato è una somma di schemi che impediscono al suo desiderio di esprimersi, alla sua sensibilità di mostrarsi fragile, alla sua persona di allontanarsi da ruoli e da generi prestabiliti. Solamente distruggendo quegli schemi saranno finalmente liberi.

Sono alla ricerca di forme familiari e relazionali diverse?

Per loro non conta il sangue, ma la solidarietà – anche se non ci sono legami sanciti da matrimoni, connessioni sentimentali, relazioni vere. Per certi versi sono loro che contribuiscono a reinventare delle forme nuove di famiglia e di relazione. Il loro amore è un amore spatriato, che è una parola negativa nel mio dialetto, ma che io concepisco positiva. Il mio sogno, che poi è il sogno di ogni scrittore, è che questo romanzo possa dare una sfumatura nuova e positiva a questa parola.

Il loro è un percorso di formazione. Scoprono chi sono (e cosa vogliono) in maniera e in tempi differenti. Quanto è importante quel percorso?

La nostra identità è un viaggio che cambia col tempo e con le esperienze. Francesco e Claudia si ribellano all’oppressione in modi molto diversi e in tempi differenti delle loro vite. Le loro, come le vite di tutti noi, hanno percorsi dissestati, non lineari. Ecco perché il percorso per il raggiungimento delle proprie identità è raccontato in modo molto naturale. Comprendere chi siamo, cosa vogliamo essere, che cosa vogliamo fare (oppure non fare) è un processo lungo. Lunghissimo, a volte.

Anche i modi con cui spatriano sono diversi fra di loro.

Francesco, nella prima parte del libro, resiste e nega la sua identità. Claudia, invece, la accetta. Negare la propria identità ti porta a essere schiavo delle circostanze. Nella seconda parte Francesco smette di negare, mentre Claudia comincia a comprendere il mondo attorno a sé e trova una sua quiete. Claudia e Francesco trovano un loro equilibrio, che non è l’equilibro di uno che è rimasto e di un altro che è andato via, perché in realtà nessuno dei due è semplicemente andato via o rimasto. Sono entrambi in movimento.

La mamma di Francesco confessa: «Non essere mai se stessi per tutta la vita è un dolore». In cosa si trasformano i nostri desideri marciti?

A saperlo! È una domanda difficilissima. Negli appunti per questo romanzo avevo annotato una frase tratta da “Ricordi, sogni, riflessioni” di Jung. Diceva così: «Un uomo che non è passato attraverso l’inferno delle passioni non le ha mai superate: esse continuano a dimorare nella casa vicina, e in qualsiasi momento può guizzare una fiamma che può dar fuoco alla sua stessa casa. Se rinunciamo a troppe cose, se ce le lasciamo indietro, e quasi ce le dimentichiamo, c’è il pericolo che ciò a cui abbiamo rinunciato o che ci siamo lasciati alle spalle, ritorni con raddoppiata violenza».

Un pericolo sempre imminente?

Sì, quando rinunciamo alle nostre passioni corriamo sempre il rischio di farle ritornare in maniera più violenta, scomposta, deflagrante. Ognuno di noi deve trovare solamente il modo più accettabile per realizzarle.

Questo è un romanzo politico. Parla di una generazione precaria, che non ha punti fermi, che non ha nulla di definitivo nella vita.

Vent’anni fa scrissi “Vita precaria e amore eterno”. Non ero l’unico a occuparmi di quel tema, ma anche altri scrittori come Aldo Nove, Michela Murgia, Giorgio Falco e Andrea Bajani fecero un’indagine, sulla loro pelle, incentrata sul precariato: una bomba atomica sulle relazioni e sul futuro. La maggior parte delle persone era nata in un mondo in cui sapeva che avrebbe avuto un certo tipo di vita, un lavoro, una famiglia. Oggi, invece, dai quarantacinque anni in giù siamo tutti precari e questo porta un aumento delle difficoltà della vita. Il mio mondo, quello dell’editoria, è stato il primo mondo lavorativo a sperimentare il precariato. Quasi tutti siamo precari, circondati, appesi.

L’altra protagonista di questa storia è la sua Puglia.

La Puglia è una terra di frontiera, con un suo codice linguistico, narrativo e culturale fatto di mescolanze. Una terra protesa a Est: è un ponte, lo è sempre stata. È anche un po’ isola, pur essendo attaccata con le montagne all’Italia, che unisce nel suo patrimonio identitario culture balcaniche, mediterranee, ebraiche, germaniche. La Puglia è una repubblica delle mescolanze.

L’arrivo della Nave Vlora nel 1991 è stato una cesura storica?

La Vlora, con i suoi ventimila passeggeri albanesi, è stata uno spartiacque. In quell’immagine simbolica c’è il senso della Puglia delle mescolanze. Quella nave ha cambiato lo sguardo e i paesaggi. Abbiamo capito che il mondo era più grande di quello in cui ci sembrava di aver vissuto fino a quel momento. Era caduto il nostro muro, quel muro che ci divideva dall’altra parte dell’Adriatico.

In queste pagine, allontanandosi dalla patina glamour di certe narrazioni, la Puglia ritrova le sue ambiguità, i suoi chiaroscuri.

La Puglia è terra accogliente, ma è anche una terra – come scriveva Maria Marcone, che in questi giorni sto rileggendo per scrivere l’introduzione alla ripubblicazione di un suo libro, “Storia di Franco” – dello “sparagno”, del risparmio, del tenersi il mondo a sé. È una terra di oscurità, di nuove mafie, di schiavismi raccontati bene da Alessandro Leogrande. C’è un’anima nera che le scrittrici donne, come Marcone, Di Lascia e Durante, hanno saputo raccontare bene. La Puglia accoglie, ma riserva anche una ferocia primitiva di cui non ci si può dimenticare. Questa terra, e il Sud più in generale, è un continuo movimento di allontanamento e riappropriazione.

Francesco resta a Martina Franca negli anni della primavera pugliese. Che cosa resta di quel periodo? Oggi è arrivata l’estate, oppure è ritornato l’inverno?

C’è stato un momento in cui tutti, anche io, abbiamo pensato che dalla Puglia potesse partire una rivoluzione. C’era uno slogan politico che diceva: «Pugliamoci in Italia». Raccontava lo stato d’animo di quel periodo, il sogno e la possibilità di poter cambiare le cose. Oggi siamo in un momento di rinculo: la Puglia non è più quella degli anni Novanta, ma è ancora una terra di grande dolore, una terra dal futuro inclinato.

Uno spirito di questo libro è il pensiero meridiano del sociologo barese Franco Cassano. Una lettura che le ha cambiato lo sguardo?

Non avrei mai potuto scrivere questo libro senza il suo pensiero meridiano. Mi ha donato uno sguardo sul mondo quel libro. Cassano è stato fondamentale per teorizzare la primavera della Puglia migliore e l’idea di una terra lungimirante, lenta, ma non immobile. Il suo è un pensiero politico che può essere utilizzato da tutti, non solo dalla sinistra. Il pensiero meridiano è una forma di attenzione all’umanità. Dare attenzione ai nomi degli alberi, come scriveva nella prima pagina di quel libro, significa dare attenzione alle diversità della nostra terra. È una metafora dell’umanità e della conoscenza delle foreste che vivono dentro di noi.

Spatriati” è uno dei libri finalisti al Premio Strega. Come sta vivendo la competizione?

È una competizione, a cui avevo già partecipato undici anni fa, ma è soprattutto un gioco. Parteciperò con uno spirito molto allegro. Se sei consapevole che è un gioco, e che non potranno darti o toglierti nessuna patente, la si può vivere in modo molto sereno.

Alessandro Piperno, presentando il romanzo, ha scritto che è «il suo libro migliore, il fiore della maturità». In che punto della carriera di scrittore si trova?

Con “Spatriati” ho chiuso una fase importante della mia vita. Il prossimo libro ne aprirà un’altra. Cambieranno anche i nomi dei miei personaggi: Francesco Veleno e Martino Bux mi abbandoneranno.

Chiusa questa fase, l’inquietudine scompare?

Mai. Come scriveva Leopardi, che riporto in epigrafe, «mai contento, mai nel mio centro».

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