La disaffezione dello spirito e la peste de “La notte si avvicina” di Loredana Lipperini. Quando tutto è eterno presente

by redazione

Ambientato nel 2008, nelle Marche ferite ancora dal terremoto, il romanzo di Loredana Lipperini, La notte si avvicina, è uscito ad ottobre del 2020 in piena pandemia raccontando un’epidemia di peste, dopo essere stato concepito e scritto, ben prima del diffondersi del Covid-19, nel 2016 a Lampedusa, come sostiene l’autrice che affida ai Ringraziamenti il ricordo della genesi di quest’opera.

Nel suo blog Lipperletteratura, in un post del settembre del 2020, ad un mese dall’uscita del romanzo, Loredana Lipperini scrive che l’idea “nasce quando il guardiano del cimitero ed edicolante mi raccontò che quando aveva recuperato i primi corpi di migranti, distrutti dal mare, ed erano ancora gli anni Novanta, per comporli si era infilato una mascherina imbottita di erbe aromatiche. Come i medici della peste, pensai allora. E da qui è nata la storia”, questo, come lo definisce in un post successivo “l’innesco” della narrazione.

Al centro c’è una considerazione che con raffinatezza l’autrice coglie nello studiare le storie delle epidemie: molto spesso, quasi sempre, questi fenomeni sono coincisi con quella che definisce la “disaffezione dello spirito” a cui si accompagna l’afflizione dei corpi, che non è solo una semplice concatenazione di eventi che provocano un atteggiamento mentale di colpevole passività, ma è qualcosa di più profondo, una patologia sociale che si trasforma in una effettiva patologia clinica, secondo una sequenza, ben nota sin dai tempi della biblica pestilenza dei Filistei e replicatasi con inquietante puntualità, che vede succedersi guerra, carestia e epidemia e quindi quella disgregazione sociale che da Tucidide a Boccaccio, passando per Paolo Diacono accompagna l’epidemia. Naturalmente ogni età ha le proprie guerre, le proprie carestie, le proprie epidemie e ogni età ha gli strumenti specifici per raccontarle.

Loredana Lipperini ambienta il suo romanzo in un paese, che torna spesso nelle sue opere, che richiama Serravalle di Chienti, senza davvero esserlo, perché questo paese, Vallescura, è “in vitro” uno specchio della nostra società, buona e cattiva al contempo, dove forse gli stessi termini di bontà e cattiveria si confondono, non si rendono più evidentemente riconoscibili. Si chiede ad un certo punto di chi sia la colpa, perché raccontare oggi l’epidemia, scrive, “è difficile”, nel momento in cui “non c’è una sola colpa e ce ne sono molte. Non c’è un inizio e ce ne sono molti”. E la questione se (p. 31) una “persona buona possa commettere il male” e se sia stata “spinta a commetterlo da un altro male che le è stato fatto o l’oscurità” sia stata sempre in lei ci riporta a quella “zona grigia” per spiegare la quale Primo Levi non poteva che ricorrere proprio a Manzoni, alla sua descrizione dei monatti, fratelli alla lontana, progenitori dei dannati del Sonderkommando di Auschwitz, concludendo, ne I sommersi e salvati che “pietà e brutalità possono coesistere, nello stesso individuo e nello stesso momento, contro ogni logica”.

Il ricordo dei mali che hanno colpito la nostra società nei primi decenni di questo secolo accompagna l’avanzarsi di una pestilenza, di una malattia che desertifica il piccolo e isolato paese collinare e che vive, tra evocazione di fantasmi ancestrali e proiezioni in un futuro distopico, tra sogni e incubi, di quei connotati sociali che sono restati uguali nei secoli, come ricorda il più volte evocato Camus della Peste, come nel caso in cui l’epidemia provoca come prima reazione lo stupore (p. 96) e l’incredulità o quando la peste diventa un sogno da cui non ci si risveglia facilmente (p. 88), perché, come ricordava Camus, “ci si dice quindi che il flagello è irreale, è un brutto sogno che passerà. Ma non passa sempre, e di cattivo sogno in cattivo sogno sono gli uomini che passano”, una realtà onirica della peste che richiama l’epidemia evocata dal Dostoevskij di Delitto e castigo, citato nel blog, ripreso dalle belle riflessioni sulla metafora dell’epidemia di Jyoti Thottam: “S’era sognato come se tutto il mondo fosse condannato a rimaner vittima d’una qualche malattia mortale, mai vista né sentita, che dal profondo dell’Asia avanzava in Europa”. La peste, dunque, arriva con lo straniero, però è in verità il male che ciascuno cova dentro ad alimentarla, a renderla reale, ad amplificarne moralmente e socialmente i danni.

Uno dei sintomi della disaffezione dello spirito è “la parte oscura della maternità, intendendo con questo la depressione delle madri, o l’incertezza – ha scritto l’autrice – nel ritrovarsi in un cammino che è molto più complicato e faticoso di quanto viene ancora descritto”. Quando viene richiamato in vita da antiche carte il batterio della Yersinia pestis del 1630, quello della peste manzoniana (p. 34), si rimetterà in moto non solo una malattia che sembrava destinata a rimanere confinata al passato, ma una narrazione che rivela, come nel racconto manzoniano, la precarietà della condizione umana.

Loredana Lipperini conclude dicendo che “il male non è qualcosa che possiamo capire fino in fondo” (p. 342) e scrive “non sappiamo neppure se ci sono innocenti e colpevoli”. Eppure ciò che lega questo libro alle pagine del suo blog scritte tra febbraio e maggio del 2020 è proprio il tentativo di comprendere il male che ci ha colpito, tanto quello fisico quanto quello sociale. Presentando alla sua uscita La notte si avvicina, ha scritto: “Quella disaffezione dello spirito ho cominciato a vederla all’inizio dei cosiddetti anni Zero, quando ogni ondata di ribellione e di vitalità sembrava essere ricaduta sulla sabbia, e dalla sabbia assorbita. Ho percepito lo stordimento, l’amarezza, l’idea che in fondo quel che accadeva lontano da noi non ci interessava più, e forse non ci interessava più neanche il passato, con la sua oscurità, con i suoi nodi irrisolti. Abbiamo cominciato a vivere in un presente replicato e immutabile, già prima che i social confermassero che si poteva vivere in questo modo, ed era persino, guarda, piacevole. Ma questa non è una morale, non può essere una morale”. Tuttavia l’epidemia ci riporta al nostro essere, ci richiama a fare i conti con il nostro essere stato, ci costringere a progettare il nostro futuro, con la consapevolezza, che condivido, che da un’epidemia non si esce migliori, anzi, c’è il rischio di una società ancora più chiusa. Un romanzo così dunque non ci dà una morale, ma ricordiamolo che alla fine anche il “sugo” manzoniano era ben poca cosa per lo stesso autore. Ci dà però la consapevolezza, almeno questa, che il nostro eterno presente, che le magnifiche sorti e progressive della nostra civiltà possono inciampare e la storia sta lì ad ammonirci.

Sebastiano Valerio

Professore Ordinario- Letteratura Italiana
Direttore del Dipartimento di Studi Umanistici. Lettere Beni culturali Scienze della formazione dell’Università di Foggia

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