Le chiese chiuse di Tomaso Montanari: «Le chiese sono i luoghi dell’annuncio: del Vangelo e del primato dell’essere umano».

by Felice Sblendorio

L’intento è quello di «accendere un riflettore sulle chiese italiane», denunciando una loro marginalità pericolosa nella vita sociale, culturale e spirituale del Paese. Per Tomaso Montanari, storico dell’arte e rettore dell’Università per Stranieri di Siena, le chiese antiche possono offrire una pausa e uno spazio di silenzio per riflettere, orientarsi e ritrovarsi negli ingorghi di questo confuso presente.

Nel suo “Chiese Chiuse” (Einaudi, 160 pagine, 12 euro), lo storico dell’arte – con il suo tono militante e critico – pone al centro la dimensione collettiva di questi luoghi sacri e pubblici, capaci di mettere in crisi il nostro egoismo e farci riscoprire il nostro lato umano. bonculture, in attesa dell’incontro fra Montanari, Monsignor Leonardo D’Ascenzo e Alessandro Zacurri in programma giovedì 22 settembre a “I Dialoghi di Trani”, ha intervistato Tomaso Montanari. 

Montanari, le nostre chiese chiuse che Paese raccontano?

Raccontano un Paese incapace di puntare sulla conoscenza e su quel patrimonio straordinario che ha costruito nella sua storia. L’Italia avrebbe tutte le carte in regola per farcela, ma non segue quello che la Costituzione ha messo a fondamento del nostro stare assieme: la cultura e la ricerca. Le chiese chiuse ci raccontano la storia di uno spreco e di un’occasione mancata. 

Le chiese antiche sono una scuola di umanità per tutti. Ma c’è ancora posto, nella contrapposizione fra turisti e fedeli, per i cittadini? 

Credo proprio di sì. La conoscenza travalica le appartenenze religiose, culturali, politiche, nazionali, etniche e si apre ai cittadini e agli umani. Le chiese, per definizione, parlano a tutti. Cattolico, etimologicamente, vuole dire universale: non solo per l’ambizione di essere una chiesa di tutti, ma anche per la capacità di parlare a tutta l’umanità. È un aspetto rivoluzionario del messaggio cristiano che, come dice San Paolo, non vuole né donne né uomini, né greggi né giudei, né schiavi né liberi. Il messaggio cristiano è un appello all’umanità in quanto tale, senza le barriere che gli esseri umani hanno inventato per dividersi fra di loro. Le chiese conservano questo carattere di universalità dal punto di vista storico, giuridico e morale. Sono luoghi di tutti e di tutte, senza alcun limite. Questo aspetto è particolarmente prezioso. 

Le chiese, scrive, non sono contenitori da riempire. Perché è così importante il vuoto che conservano al loro interno? 

Il vuoto, oggi, ha un’importanza enorme. Il vuoto consente di pensare, di trovare sé stessi, di non essere ottimizzati, messi a frutto o sfruttati. Consente una dimensione di gratuità non solamente legata all’aspetto economico. Il vuoto amplifica il silenzio. In una società governata da ritmi frenetici, da rumori e da un altro senso del tempo, nelle chiese vuote siamo in grado di recuperare un colloquio interiore con il nostro essere più profondo. Le antiche chiese rappresentano l’ultima traccia di un mondo radicalmente alternativo al nostro: un mondo che possiamo conoscere semplicemente varcando una soglia. 

Sembra che il vuoto delle chiese sia uno degli ultimi spazi di contraddizione delle opinioni comuni, delle nostre credenze. 

Sono luoghi che, per loro natura, coltivano la diversità. Da quella fondamentale fra i vivi e i morti, a quella che divide il passato dal presente. Le chiese antiche sono luoghi che contraddicono le nostre sicurezze e le nostre certezze consolidate. L’antico smonta l’importanza e la centralità di quello che è attuale. Quelle chiese dimostrano che l’attualità svanisce presto e, allo stesso tempo, ci propongono valori, persone, messaggi e simboli di centinaia o migliaia di anni fa. Sovvertono il nostro modo di pensare, ribaltando tutte le categorie. E questo è un grande bene: ci liberano dalle camicie di forza del presente che noi stessi ci siamo imposti. 

Sempre di più c’è una voglia di attualizzazione dei beni culturali, di riscrittura moderna dell’antico. Che cosa c’è che non va?

L’antico è già attuale. Se attualizzarlo significa piegarlo alla cronaca effimera dell’imminente, che fra dieci minuti è già il passato, è un’operazione inutile, distruttiva. Il problema, oggi, è comprendere che cos’è davvero attuale, che cosa dura e che cosa non è effimero. Attuale è qualcosa di profondo, di stabile, di duraturo. Il nostro presente, che divora il passato e non riesce a costruire un futuro possibile, è sicuramente attuale, ma fra poco svanirà. Il patrimonio culturale ci parla di qualcosa di eterno che è profondamente radicato nella nostra esistenza. 

Siamo a un bivio avvelenato: congelarle materialmente o distruggerle moralmente queste chiese?

Sì, sembra che non ci sia alternativa fra lo sfruttamento e la rovina. L’idea che siano luoghi liberi e che possano liberare qualcuno, non ci sembra così giusta. Tutto si sottopone al dominio del denaro. Ma come diceva Gesù nel Vangelo non si può obbedire a due padroni: o Dio o il denaro. 

Quando non chiudono, molte chiese si trasformano in bigliettifici.

Esatto. Bisognerebbe, invece, evitare ogni simonia, ogni biglietto, ogni vendita, ogni mercificazione o privatizzazione: aperture gratuite, per tutti. Un luogo di culto deve essere sempre accessibile, libero. È questa la sua missione. 

In questo suo pamphlet denuncia la totale sottovalutazione della tutela a favore della valorizzazione. 

A me pare evidente. La valorizzazione è intesa come marketing, propaganda, promozione di chi governa o di chi gestisce il potere. Se la cultura scompare dal discorso pubblico e si trasforma in intrattenimento, la gestione dell’intrattenimento diventa automaticamente gestione del consenso. Le politiche culturali oramai sono legate alla quantità di biglietti staccati. La cultura come strumento di comprensione del mondo e come sviluppo di un pensiero critico è stata esiliata dal nostro Paese. 

Da dove si riparte?

Si riparte da una rivoluzione culturale, ritornando a chiamare le cose con il loro nome e smettendo di usare questa neo-lingua con cui si parla unicamente di valorizzazione e promozione. Usiamo dei sostantivi astratti per nascondere il grave scempio che si compie ai danni della cultura. Bisogna ritornare alle cose, chiedersi a che cosa serva il patrimonio culturale. Perché un ragazzo di quindici anni dovrebbe entrare in un museo o in una chiesa antica? Rispondiamo a questa domanda, sennò diventa tutto strumentale. 

Perché, secondo lei?

Per essere liberato, per trovare uno strumento di liberazione dalla costrizione di essere o un consumatore o un cliente. I beni culturali sono luoghi di formazione, istruzione, conoscenza. Ribadisco: non è cruciale né la prospettiva commerciale e neppure quella culturale. Questi luoghi devono ribadire una dimensione di liberazione dell’animo umano. 

Non si fa abbastanza in questo senso?

No, si portano i ragazzi nei musei per scopi totalmente differenti. Portiamo Chiara Ferragni agli Uffizi pensando che i ragazzi e le ragazze che vogliono assomigliare a lei andranno in quel museo, ma non è così. La Ferragni è una grande professionista, sta assumendo anche delle posizioni politiche molto coraggiose e giuste, ma non può diventare un simbolo, non può rappresentare una ragione per entrare in un museo. Il suo invito è un’ulteriore adesione all’oggi, all’effimero. I ragazzi, invece, devono essere liberati dai bisogni indotti e dai modelli imposti dal mercato. Si entra in un museo non per comprare, per imitare o per assomigliare a qualcuno, ma per ritrovare sé stessi.

Al centro dei beni culturali, dunque, non ci sono i cittadini?

Credo sia evidente. Al centro c’è il denaro, non ci sono i cittadini. Una prova tangibile è la presenza costante di mostre inutili all’interno del patrimonio culturale: quella è una macchina da soldi che ci vuole clienti, non cittadini. Molte mostre rappresentano un fast-food dell’arte scadente: non aumentano la conoscenza del patrimonio culturale, ma seducono, stordiscono, intrattengono. 

Il patrimonio culturale, in una società che è formata dall’addizione di più solitudini, può ritrovare una sua missione nella costituzione di luoghi comuni, collettivi?

A me pare che la pandemia, fra le varie cose che ci ha insegnato, ci abbia mostrato che non possiamo restare chiusi in casa. Che abbiamo bisogno di spazio pubblico, di essere collettività, assemblea. Chiesa – in greco – vuol dire assemblea. Oggi, più che mai, abbiamo bisogno di essere plurale, non solo singolare. 

Un patrimonio abitato è un patrimonio protetto, al sicuro? 

Il patrimonio culturale è al sicuro finché è frequentato, amato, vissuto e conosciuto: le chiese si aprono ai ladri e ai saccheggiatori quando si chiudono ai cittadini. 

Per rianimare le chiese antiche lei indica due guide: la Costituzione e il Vangelo. Ritorneranno a vivere quando saranno lo spazio degli ultimi?

Certamente. È proprio questa una delle chiavi di lettura del mio manifesto. Sono luoghi di tutti, dei poveri di denaro, dei poveri di cultura e, soprattutto, di chi non ha altri luoghi. Lorenzo Milani, nelle sue “Esperienze Pastorali”, scriveva: «Per un prete, quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire? Aver la chiesa vuota. Vedersela vuotare ogni giorno di più. Saper che presto sarà finita per la fede dei poveri». Bisogna ritornare a far vivere queste chiese.

Perché le chiese non possono essere considerate come dei musei?

Le chiese non sono musei, ma cose vive per i vivi. Le chiese sono i luoghi dell’annuncio: del Vangelo cristiano, ma anche del primato dell’essere umano. 

Il ritorno all’umano ritorna spesso in queste sue pagine.

Le chiese antiche possono ritrovare l’aria, lo spazio pubblico e la libertà dello sguardo imprigionata dall’assedio del mercato. Sono spazi che ci chiedono di cambiare radicalmente i nostri pensieri, le nostre scale di valori e le nostre sicurezze. Il loro vuoto, così, ritorna fondamentale per risvegliare ciò che di umano resiste in noi. Per ritornare a camminare, finalmente, a passo d’uomo. 

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