L’ultimo Ricciardi. Intervista a Maurizio De Giovanni

by Ines Pierucci

Quando si ha tra le mani un libro di Maurizio De Giovanni il tempo si ferma, o meglio, chi legge sospende i momenti più intensi perché vorrebbe che non passassero. Il Mezzogiorno dell’autore campano, descritto senza commiserazione e con schiettezza attraverso le sue parole appassionate, lascia che il lettore abbracci le storie incorniciate in un racconto talmente immaginifico da aver spontaneamente consegnato le opere alle trasposizioni televisive rendendole note anche al grande pubblico che, nel tempo, è diventato sempre più esigente. Sono passati quindici anni dalla sua prima pubblicazione e all’affacciarsi del suo prossimo romanzo, si sta girando a Taranto la serie tv liberamente tratta dai romanzi di Ricciardi ma questo, rispetto agli altri, è un progetto di cui lo scrittore non si sta occupando.

Così come all’autore, al commissario Ricciardi ci si affeziona presto, l’ambizione di diventargli amico si unisce al desiderio di dargli dei consigli in alcune pagine e consolarlo nei momenti difficili. De Giovanni con i suoi lettori instaura un empatia che traspare anche davanti ad una platea di centinaia di persone che lo aspetta alle kermesse letterarie. Non si nega mai a nessuna sollecitazione, sia affettuosa che professionale e come tutte le persone di cuore non sa fingere, esattamente come i suoi personaggi. La scrittura è impetuosa come il mare che la attraversa, si scaglia contro la terra dei sentimenti in tempesta che a volte ripara la costa a volte la infrange. Comincia per gioco la storia di Maurizio De Giovanni che, come tutti, è prima lettore e poi scrittore.

Nel 2005 è nato il fortunato personaggio letterario del commissario Ricciardi, da allora quasi ogni anno appare un nuovo romanzo dedicato all’investigatore partenopeo. Come nascono i tuoi romanzi?

Ti correggo: a partire dal 2006 i libri della serie del commissario Ricciardi sono usciti sempre, uno all’anno. E quello del 2019, Il pianto dell’alba, in libreria dal 25 giugno, sarà l’ultimo. A parte l’origine del filone, che risale alla mia partecipazione a un concorso al Gambrinus cui ero stato iscritto da alcuni amici che intendevano ridicolizzarmi per la mia smodata passione per la lettura, la scrittura dei singoli volumi è stata sempre velocissima. Le ricerche del materiale sono durate anche un intero anno, visto che ho cercato di essere molto preciso su circostanze storiche e dettagli di vita quotidiana, ma la scrittura è avvenuta sempre di getto. Addirittura, la redazione de Il pianto dell’alba ha richiesto diciassette giorni. Ma non lo diciamo troppo in giro…

Sembra che Ricciardi a volte si senta stretto nel suo ruolo, si alterna dal punto di vista umano la forza e la debolezza del protagonista che sembra vivere un disagio, schiacciato anche dalle ingiustizie che vede. Perché questa caratterizzazione nel personaggio?

Volevo un protagonista senza telecomando, incapace di cambiare canale davanti alle brutture, come invece ci accade di fare, purtroppo sempre più spesso. Un antieroe afflitto da un eterno mal di testa, sofferente per il male che infetta il mondo. Il “fatto” per Ricciardi è una condanna, non un dono: più che il modo di risolvere i casi (peraltro, spessissimo le ultime parole della vittima lo sviano dal reale corso degli eventi), la metafora della compassione che il commissario sin da bambino prova per le vittime.

Il contesto politico è di grande importanza nelle storie che racconti. Da dove nasce la scelta del periodo storico fascista?

Esiste un motivo contingente: il primo racconto con protagonista Ricciardi è stato scritto durante il concorso cui facevo riferimento, al Gambrinus. Sono quindi stato influenzato dall’ambiente liberty del locale. Naturalmente avrei potuto benissimo spostarlo nel tempo, ma ho scelto di lasciarlo là dove era nato. Ho sempre odiato la polizia scientifica, l’esasperazione dei rilievi autoptici. In realtà gli anni Trenta rappresentano l’ultimo periodo durante il quale le indagini erano condotte tenendo presenti i sentimenti delle persone coinvolte.

Tra i tanti adattamenti dei tuoi romanzi, oltre a quella delle serie tv, c’è anche quello a fumetti. Qual è la differenza tra i diversi linguaggi?

Sono appunto linguaggi diversi, dunque non paragonabili tra loro. Ma a mio avviso, con i miei libri la Bonelli e tutti i disegnatori impegnati nel progetto, rigorosamente campani su mia richiesta, hanno fatto un lavoro egregio, che ha moltiplicato il valore letterario del testo.

La passione è un altro ingrediente che si legge chiaramente tra le righe dei tuoi romanzi ed emerge anche attraverso punte di romanticismo nelle storie. È questo un altro ingrediente della ricetta del successo?

Credo di sì. Io amo profondamente tutti i miei protagonisti, anche quelli negativi. Tra l’altro, moltissime vittime sono persone peggiori rispetto agli assassini.

Capire i personaggi e tenerne presente la storia e le caratteristiche, anche quando sono assolutamente marginali, consente al lettore l’immedesimazione.

Ricciardi è stato più volte definito il “nuovo giallo” italiano, che affonda le sue radici nobili e illustri in altri maestri del passato. Quali sono i tuoi riferimenti letterari?

Io sono un lettore bulimico: leggo di tutto e di più. E tutto quello che ho letto è alla base delle mie storie, in una rielaborazione più o meno consapevole. Potrei smettere di scrivere anche domani, ma non potrei passare neanche un giorno senza leggere.

“Per parecchio tempo questa città è stata la mia prigione” lo afferma l’ispettore Lojacono, parlando della sua città natia, nell’incipit di Vita quotidiana dei Bastardi di Pizzofalcone. È così anche per te con la tua Napoli? 

No. Se me ne andassi non scriverei più. Napoli per me è linfa vitale. Dico sempre che è come una madre rumorosa, un po’ sopra le righe, che veste con colori sgargianti e parla a voce troppo alta: te ne vergogni un po’, ma non la cambieresti con nessuna al mondo perché è tua madre e la ami profondamente, così come è.

A proposito della tua città. Da tifoso del Napoli cosa ne pensi di Sarri, prossimo allenatore alla Juventus?

Preferisco non rispondere, visto che Sarri è un amico e tra l’altro un mio lettore. Dico solo che è una vicenda triste in cui si intravedono responsabilità sia da parte dell’allenatore che dei tifosi. Ma io sono tifoso del Napoli e non degli uomini, né tanto meno dell’allenatore.

Ph Credit: Alessandra Carbone

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