“L’unica cosa che resta a un ostaggio è la sua memoria”: un dialogo con Domenico Quirico

by Felice Sblendorio

Ci saremmo dovuti fermare all’abbraccio fra Silvia Romano e sua madre, ma così non è andata. I sette giorni che ci separano dal suo arrivo in Italia sono una testimonianza della degenerazione barbarica del dibattito pubblico (e politico) italiano: dall’aula del Parlamento è risuonato un “neo-terrorista”, sulla sua finestra a Milano qualcuno ha lanciato i cocci di una bottiglia di vetro, mentre sui social non si contano gli oltraggi e gli insulti contro la giovane cooperante internazionale rapita per 18 lunghissimi mesi.

Se il tempo di una prigionia può essere sterminato, incredibilmente lungo, il tempo del giudizio non ha superato i cinque minuti di ragionamento: tesi e teorie sulla sua conversione, sul riscatto, sulla vita. Ma cosa sappiamo di queste storie, dei contesti e delle necessità? Cos’è, oggi, la Somalia, il teatro di guerra del rapimento? E chi è questo gruppo di jihadisti, legati ad al Qaeda, che compie atti terroristici? Per ricostruire un contesto, ragionando a freddo, bonculture ha intervistato Domenico Quirico, giornalista del quotidiano “La Stampa”, già corrispondente da Parigi, responsabile degli esteri e inviato di guerra. Nella sua carriera giornalistica con uno stile riconoscibilissimo ha raccontato le vicende africane degli ultimi vent’anni, le Primavere Arabe, il genocidio del Ruanda e la fine del regime di Gheddafi in Libia.

Quirico, partirei dal contesto di questa storia che ha coinvolto Silvia Romano e che pone al centro della nostra attenzione la Somalia, un crudele teatro di guerra da più di trent’anni. Che condizione c’è in quel Paese?

La condizione di vita è quella che si può trovare in un luogo in cui la guerra, in realtà, non è mai finita. Sono cambiati i nomi dei protagonisti, la situazione si è caricata con il fanatismo religioso, ma lo scenario resta sempre drammatico. A Mogadiscio negli ultimi anni qualcosa è leggermente migliorata, però le autobombe e gli attacchi di al-Shabaab sono molto frequenti e sanguinosi. Nel resto del Paese è difficile dire chi controlla chi. La Somalia è abbastanza diversa territorialmente, e in molte zone questi gruppi hanno praticamente il controllo totale. Il gruppo di al-Shabaab assomiglia a un’attività criminale che fa estorsioni e guerriglie contemporaneamente. Hanno contatti molto stretti con altri Paesi e attorno a loro c’è molto denaro. Per loro il denaro del riscatto di Silvia Romano è una goccia nel mare. La Somalia sta cercando di ricostruirsi, e questi processi favoriscono affari e soldi, soprattutto sporchi.

In questo contesto è possibile pensare al perché sia stata rapita?

È una domanda complessa. Forse è stata rapita perché un’occidentale è un sequestrato interessante: ti permette di estorcere denaro, certamente, ma anche di far esplodere contraddizioni all’interno della controparte. Gestire un sequestro può essere politicamente fruttuoso perché costringe il tuo nemico a prendere contatti con te, a riconoscerti. C’è tutta una comunicazione del sequestro molto importante nella dimensione politica islamica. Questo aspetto, nel tempo, si è raffinato.

Molte polemiche si sono rincorse sull’eventuale pagamento di un riscatto che andrebbe a finanziare le attività criminali di questi gruppi. Il Ministro degli Esteri ha smentito questa notizia. In casi del genere è solo il pagamento ad assicurare la salvezza dell’ostaggio?

Ci sono Stati che hanno tentato di liberare gli ostaggi con operazioni militari e Stati che pagano i riscatti. Queste operazioni possono andare bene oppure fallire, come d’altronde anche i riscatti non sono mai sicuri al cento per cento. Dal mio punto di vista, però, il tema principale non è questo. A me interessa l’importanza della vita umana. La contrapposizione vera, in alcune situazioni complesse e difficili da governare con sicurezza, è: o il denaro o la salvezza di una vita. Per il mio sistema di valori il denaro non vale niente, mentre una vita vale tutto.

Il denaro è l’obiettivo principale quando si progettano rapimenti come questo?

Dipende da caso a caso, da quale gruppo ha fatto questa operazione, da cosa si proponevano di fare. Faccio due esempi: per i sequestri dell’Isis il riscatto non ha nessun rilievo perché la parte economica non esiste. Sequestrano persone per ammazzarle, per poter avere l’oggetto di una comunicazione sacrificale: uccidere brutalmente per dimostrare che il Califfato è potente e dispone della vita degli occidentali. Per altri gruppi fortemente criminali, come quello di al-Shabaab, il riscatto può essere l’elemento principale ma non esiste una regola precisa, netta. Sul fronte politico pongo solamente questa domanda: la linea di chi non tratta, o tratta dietro le quinte, ha prodotto un ridimensionamento della potenza di questi gruppi? No, ha prodotto solamente una serie di persone uccise. 

Domenica scorsa, poco dopo l’arrivo di Silvia, aveva suggerito di raccontare questo caso con pudore. Abbiamo visto, però, una sovraesposizione dell’immagine e del corpo di questa giovane cooperante: dall’arrivo a Ciampino agli attacchi sui social, passando per le accuse di “neo-terrorista” risuonate in Parlamento. È stato un errore esporla così tanto?

Credo ci sia modo e modo di fare le cose. Chi ha organizzato quel momento di pubblicizzazione del suo ritorno a casa credo che abbia sbagliato. In questi casi bisognerebbe evitare di sfruttare il sequestrato diventato libero come quelli che l’hanno reso prigioniero sfruttandolo per avere denaro o altro. Non si possono usare queste persone per qualcosa di conveniente al politico di turno oppure all’opinione pubblica. Quando parlo di pudore voglio dire proprio questo: non sfruttiamo questa giovane ragazza che ha attraversato qualcosa di crudele per altro. Limitiamoci alla bella notizia di questa storia: Silvia è a casa, finalmente libera.

I simboli, in questa liberazione, sembrano importanti. Per molti osservatori l’arrivo in Italia con il suo jilbab verde è stato un momento di propaganda per i terroristi. Condivide?

L’errore che non bisogna fare quando si parla di questi movimenti è quello di inquadrarli tramite le nostre idee. Non possiamo ragionare con i nostri codici e significati: hanno visto la Romano tutta bardata e sono contenti. Avendo frequentato queste persone le posso assicurare che molte delle nostre teorie sulle loro costruzioni simboliche sono inesatte. In questo caso non so se hanno esultato perché non ho elementi a disposizione per capire che cosa si proponessero di fare e se questo ostaggio era per loro importante. Sicuramente ci hanno messo di fronte alle nostre contraddizioni: sul corpo e sull’idea di conversione di Silvia si sono ritorti i nostri incubi e i nostri pregiudizi. Andrei cauto su queste teorie comunicative, però. È possibile, ma credo che la loro strategia vada ben oltre una fotografia da convertita a Ciampino. Questi gruppi vogliono costruire il Califfato d’Africa, si figuri se pensano così tanto a queste cose.

Sulla sua conversione, volontaria o involontaria che sia, a noi resta solamente il rispetto.

Ci mancherebbe! Con qualunque Dio non si scherza, non si fanno speculazioni.

Lei, però, conosce bene il rito dell’offerta della conversione. Una scelta del genere, in quelle condizioni, si può considerare libera?

Basta il codice penale e non serve neanche scomodare Hobbes o Spinoza. In una condizione di prigionia nessuna scelta è veramente libera. Ripeto: nessuna scelta è veramente libera. Poi, quello che è accaduto nel periodo di prigionia, vorrei ricordare, appartiene esclusivamente a Silvia Romano. Tutto appartiene a lei: il dolore, la conversione o la mancata conversione, l’angoscia, la speranza, il rivolgersi a un Dio e a quale Dio. È tutto suo. È lei che deve mettere le mani in questo lievito e vedere cosa resta, cosa vuole conservare, cosa sarà possibile cancellare. Silvia ha attraversato un’esperienza estrema ai limiti della morte, ai limiti dell’angoscia della morte. Meriterebbe il nostro rispetto e il nostro pudore: quella storia è solamente la sua, non di sessanta milioni di italiani pronti a giudicare.

A chi ha vissuto un trauma del genere resta solamente una memoria, appunto. Lei nel 2013 ha vissuto la stessa esperienza di Silvia Romano: per 152 giorni è stato ostaggio in Siria. Di quel momento doloroso cosa resta? 

Un grande silenzio, che dopo un po’ scende su coloro che hanno attraversato questi drammi. Ti resta la sensazione di non riuscire a far comprendere agli altri che cosa è stato. La mia, come tante altre, credo sia un’esperienza che non si possa narrare o, meglio, si può tentare di raccontare solo fino a un certo punto. Quello che non riesci a dire, non per una questione pratica o inconfessabile, rimane solamente tuo e ci devi convivere. Ci sono aspetti inconfessabili perché mancano le parole. Di quell’esperienza mi resta il limite della parola: il limite di uno strumento così forte, primitivo e allo stesso tempo incompleto per raccontare certe cose.

In quei cinque mesi di prigionia ha contato e segnato, giorno dopo giorno, il tempo che passava. Osservarlo da fermo è stata la prova più difficile?

Questo tema è terribile per ogni sequestrato. Il tempo che ho vissuto è stato tragicamente vuoto e occupato dalla costante consapevolezza della situazione in cui mi trovavo. Su questo tormento si basa il dramma di ogni sequestrato, anche per quelli italiani dell’Anonima Sarda. Le cito questo caso perché è successo in Italia, dove l’industria del sequestro ha angosciato la politica, la sicurezza e la magistratura per molto tempo. La brutalità non ha nazionalità: nel nostro Paese, a proposito di barbarie, si tagliavano le orecchie per indurre i parenti a pagare.

Il vero inferno è stato l’assenza di pietà?

In alcuni luoghi del mondo la pietà non è possibile. Non vorrei generalizzare, ma la Siria che ho conosciuto io è uno di questi. L’uomo lì è obbligato a praticare il male per non essere eliminato. In quei sistemi totalitari, dove la guerra è una pratica quotidiana, come fai a essere buono? Credo sia impossibile.

Ha scritto nel suo libro, “Il paese del male: 152 giorni in Siria”, che Dio in quella prigione era come “una macchia umida sul muro”. L’ha aiutata quella presenza?

Molto, mi ha aiutato molto: per un credente è fondamentale. Nel silenzio di Dio ho avvertito la sua fragorosa presenza.

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