L’uomo del futuro: Giulio fa cose

by Felice Sblendorio

Viene in mente l’essenza della parola “restituzione” leggendo il libro “Giulio fa cose” (Feltrinelli, 16 euro, 224 pagine), che Claudio Regeni e Paola Deffendi hanno dedicato a loro figlio Giulio.

Ritorna in mente questa parola per descrivere un libro che è una carezza, un gesto d’amore, e un pugno: come l’ingiustizia molto spesso più crudele di un dolore, di una perdita. Di tutti questi sentimenti sono composte queste pagine sincere e dolci, questo racconto di chi è stato Giulio prima e dopo quel 25 gennaio 2016. C’è sempre una data che cambia le nostre vite, il modo di stare insieme, la percezione di quello che non potrà più essere: il mondo e noi. Chissà se anche Giulio ha intuito questa sensazione di destino al bivio delle cose, in quei giorni freddi di quel buio gennaio al Cairo.

Chissà, appunto. Sono poche le cose certe di quel prima, di quel momento che ha annullato una vita intera e sbiadito tante altre. Del dopo sono certi i depistaggi, le menzogne, le non volontà di svelare il giusto e poi il male, sul viso di Giulio: tutto il male del mondo. Di un figlio è difficile parlare al passato. Di un figlio è difficile accettare, come unica dimensione possibile, solo quella del giorno prima e mai quella di un giorno futuro. Si sente tutto questo peso nelle pagine che scrivono i genitori: un peso che portano sulle loro spalle come se fosse davvero tutto il peso del mondo, tutto il bello e tutto l’orrore immaginabile.

E proprio l’immaginazione non dà tregua. Giulio non è stato semplicemente sequestrato e ucciso, ma anche torturato. Cambia molto, forse tutto. Arriva un brivido quando Paola Deffendi racconta i momenti trascorsi in obitorio, quell’identificazione che solo una mamma può e sa: un figlio si riconosce da particolari minimi. “Fino all’ultimo speravo che non fosse Giulio, che si fossero sbagliati. E invece siamo entrati e ho visto il naso, da lontano. Ho detto a Claudio: è proprio lui, lo riconosco dalla punta del naso e non avrei mai pensato di riconoscere una persona cara dalla punta del naso. Secondo me, poi gli hanno anche sputato: non c’è niente che lo dice, ma secondo me gli hanno sputato addosso.  Gli avranno detto: italiano, di Cambridge, cosa volevi fare qua? È stato colpito sul corpo, nell’animo e anche nell’intelligenza”.  

Quando l’immaginazione chiede una prova, rischiando, si è pronti davvero a tutto. Ma è un calvario della ragione e dell’anima dover immaginare le ultime ore, gli ultimi minuti di un figlio: il freddo che avrà sentito e il cielo ostile che avrà incontrato. Gli ultimi luoghi, partendo da casa sua e arrivando alla fermata della metropolitana di Dokki. Poi le ultime certezze, poche, e i traditori, tanti. E il nulla. I ricordi si aggrappano a tutto, alle parole non dette ma soprattutto a quelle che resistono alla furia dei dolori. Le ultime parole di questo figlio ai suoi genitori sono del giorno prima della scomparsa: “Se vedemo”. Tutto il folle amore in dialetto perché lui era uomo di mondi e terre, di viaggi e lingue, di affetti e futuro.

Ventotto anni di sogni: Giulio era futuro, forse il futuro migliore. Era un viaggiatore, di quelli che il mondo non è mai troppo ostile per conoscerlo, per divorarlo, per far diventare gli altri “la tua immagine riflessa e il contrario di te stesso”. “Il viaggio è una forma mentis”, scrivono i genitori. Una forma, un’impostazione: conoscere, capire, capirsi. È un cerchio che si chiude sempre. A chi chiede a Paola e Claudio se educherebbero nella stessa maniera i loro figli, la risposta esce quasi spontanea. Come se quell’educazione, un passo nelle radici e dieci nei mondi che non conosci, fosse l’unica possibilità di scelta per loro. Per loro, viaggiatori alla Saramago che il viaggio alla fine non finisce mai. Allora il mondo come cifra, la conoscenza come stile, la curiosità come forza.

Giulio Regeni non aveva paura del mondo: aveva sempre viaggiato e incontrato l’altro. Da giovanissimo era partito dalla sua Fiumicello per un lungo viaggio, dal Collegio del Mondo Unito in New Mexico a Leeds per la laurea, da Cambridge per la specialistica a Vienna per uno stage di otto mesi all’Unido, dal Cairo a Oxford e poi ancora Cambridge, nel dipartimento di Development Studies per il dottorato di ricerca sui sindacati egiziani. Non aveva paura di conoscere e comprendere, lui che già dalle scuole elementari sapeva troppo perché leggeva “Topolino”. Conoscere e comprendere: una condanna a morte in Paesi dove le paranoie securitarie abbondano e i diritti civili scompaiono. Giulio Regeni era un uomo delle libertà dell’Europa unita, della solidarietà, dei diritti umani che non sono forma ma sostanza, destino e carne umana. Non andò così per lui.

Le orribili logiche e dinamiche che portarono all’uccisione di questo giovane ricercatore italiano sono difficili da digerire. Un tradimento della vita e della passione. La passione che Regeni, come tanti altri ragazzi, aveva. La passione per capire e cambiare, collocarsi nel mondo e immaginarselo migliore di quello che è. “Sto facendo la cosa giusta”, scrisse negli ultimi appunti della sua ricerca. Fare la cosa giusta, nonostante tutto. 

In questi brandelli sparsi della memoria, uniti anche grazie alla collaborazione dell’avvocato Alessandra Ballerini, i Regeni ci donano una parte di Giulio inedita: quella vera, quella non approssimata dai media o infangata dagli egiziani. Ci donano l’amore, la forza per la ricerca di una verità singolare e reale e uno stile: non i genitori di una vittima, ma cittadini. È una differenza sostanziale perché cambiano gli occhi, lo sguardo sulle menzogne, sulla miseria di chi calpesta le libertà, sui silenzi di chi doveva proteggerlo e su una politica che non regge le prove di fronte alla vita, al dolore, al valore umano che dovrebbe essere sempre sopra le parti, ma mai sotto. È questa l’anima miserevole della politica, mi dico leggendo questo libro: non i tweet, i parlamentari in meno o i vitalizi in più.

Se c’è il torto di una vita offesa non c’è pace, accordo o interesse che tenga: conta solo la verità. Alla fine, l’unica degna restituzione. Come questo dono di Paola Deffendi e Claudio Regeni, assieme a Giulio simbolo dell’Italia migliore, che ci hanno permesso di entrare in un lessico e in un rito familiare: quello del ricordo. Dal bimbo all’uomo, dai sogni a quel colore giallo che amava e che oggi è il suo: il giallo Regeni che tutti noi viviamo cercando rispetto. Di tutte le cose fatte e di quelle che non potrà più fare perché qualcuno, in un giorno di gennaio, ha deciso di divorare la cosa più preziosa che ci possa essere fra terra e cielo: il tempo andante del futuro.

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