«Nessuno può impedire ad una donna di vivere la sua vita». “La guerra dentro” di Martha Gellhorn, la corrispondente col dovere della verità

by Michela Conoscitore

Il tributo ad una pioniera del giornalismo di guerra, un modello da seguire per professionalità, ma anche per la dedizione ad un mestiere che si era trasformato in una ragione di vita: lo dedica Lilli Gruber alla giornalista Martha Gellhorn nel suo nuovo romanzo, La guerra dentro – Martha Gellhorn e il dovere della verità edito da Rizzoli.

Gruber ripercorre le tappe di una carriera difficile, avventurosa e amatissima per cui Gellhorn ha viaggiato in tutti i continenti, testimone oculare dei momenti che hanno costruito la storia contemporanea per raccontarla ai suoi lettori. La sua era una missione molto pericolosa, ma incurante di questo e dei limiti allora connaturati al suo essere donna, da giornalista ha saputo non soltanto superarli ma insegnare al mondo e all’opinione pubblica a guardare professioniste come lei da un altro punto di vista. Tante in quel periodo stavano dimostrando alla società, ma in primis a loro stesse, che sapevano sopravvivere e cavarsela anche senza uomini accanto. Anzi, la zavorra erano proprio loro. Le ali di molte donne, da tarpate, si spiegarono in un cielo vasto di possibilità.

Raccontando la vita di Martha Gellhorn, Lilli Gruber ci dona il punto di vista di un inviato di guerra. Abituati a leggere i reportage stando seduti comodi in poltrona, avvertendo magari idealmente il freddo, il fango e le asperità di un lavoro come questo se il giornalista è particolarmente dotato come Gellhorn, il lettore tuttavia è allo scuro di come si svolge dietro le quinte. Sottotitolo del libro è ‘il dovere della verità’, un obiettivo che gli inviati come Gruber hanno perseguito per diffonderla e affossare la propaganda. Il loro credo è l’impossibile, arrivare a poca distanza dal fronte di guerra, avventurarsi in territori spesso pericolosamente mortali e portare a casa il pezzo. Vivono per quello, un lavoro il loro che costeggia il mondo reale ma si nutre principalmente di ideali. Molti potrebbero asserire che il modo di svolgere questo mestiere sia cambiato negli anni, d’altronde come tanto altro. Eppure, giornalisti come Lilli Gruber, il marito Jacques Charmelot, Angela Rodicio ed Edina Neretljak dimostrano che qualcosa di buono Martha l’ha lasciato anche alla generazione che l’ha seguita. Una grande famiglia quella degli inviati di guerra che ha permesso alla comunità umana di essere al corrente su eventi fondanti della storia e scavalcare il potere, quello bieco e ignorante.

Martha Gellhorn fu l’unica donna a documentare lo sbarco in Normandia, a raccontare gli orrori dei campi di concentramento e a scaricare Ernest Hemingway, tutte imprese che questa caparbia ragazza di St. Louis in Missouri aveva reso possibili. Nata in una famiglia di origine ebrea, Martha sentì la vocazione per la scrittura da giovanissima. Così decise presto di investirvi e convinse anche i genitori nel supportarla. Carismatica, affascinante e particolarmente persuasiva, Martha si fece le ossa in Europa dove conobbe per la prima volta anche l’amore con l’economista Bertrand de Jouvenel, vecchia conoscenza della scrittrice Colette.

Tornata negli Stati Uniti col cuore infranto e incinta, preferì abortire e proseguire la storia con Jouevenel che, poco dopo, interruppe la loro relazione. Negli USA, grazie ad un incarico governativo nel periodo della Grande Depressione, Martha divenne amica della coppia presidenziale, i Roosevelt, e da lì, grazie alla sua bravura, la gavetta cominciò ad essere in discesa. Arrivarono le prime collaborazioni importanti con i quotidiani tra cui Collier’s che la spedì in Spagna con altri suoi corrispondenti per documentare la Guerra Civile. Nel gruppo, Martha ritrovò Hemingway, il celebre scrittore conosciuto qualche mese prima a Key West. Fu amore, anche se l’uomo era sposato con la seconda moglie Pauline. Martha a Madrid fu assorbita dalla narrazione della guerra e dall’esempio di altri colleghi più esperti, che scommisero sulla loro vita pur di documentare quella guerra fratricida. Quel che successe alla fotografa Gerda Taro che, insieme a Robert Capa, instaurò con Martha un rapporto fraterno e importante.

Devo vivere a modo mio, non solo a modo tuo, o non ci sarebbe nessuna me per amarti. Non ti piacerei davvero”, Lilli Gruber riporta questa citazione al principio dell’avventura giornalistica dell’illustre collega, condendo il tutto anche con del fine umorismo quando confronta lo stile puro, efficace e da vera fuoriclasse di Martha con quello di Hemingway, uno scrittore prestato al giornalismo che non riuscì a mettere da parte il suo ego nemmeno in occasioni irripetibili come il D-Day, lo sbarco in Normandia da lui raccontato come un’impresa personale. Gellhorn, invece, giunta lì con un espediente rocambolesco, grata di assistere ad un evento che era certa avrebbe segnato il nuovo assetto del continente europeo, mise dentro la sua cronaca tutta la passione e la maestria di cui era capace. Anche se l’articolo di Hemingway andò in prima pagina, il suo, seppur più meritevole, si posizionò in quelle centrali.

Ridondante, autocompiaciuto, maschilista, lo scrittore di Addio alle armi si rivelò un peso per la carriera di Martha. Si lasciarono definitivamente nel 1945, ma tutto era già stato deciso nel 1943 quando Hemingway in una lettera le scrisse: “Sei una corrispondente, o moglie nel mio letto?”. La risposta di Martha fu di partire per il fronte italiano e seguire l’avanzata degli Alleati lungo la Linea Gotica. Giunta a quel momento, la reporter era già una veterana perché dopo la Spagna aveva seguito la guerra in Finlandia nel 1939 dove conobbe il giornalista, ancora fascista all’epoca, Indro Montanelli. Da buon macho italiano, ci provò ma ricevette picche dalla bella americana. Vantandosi, ovviamente, in seguito di una notte d’amore trascorsa mentre fuori dal loro rifugio infuriavano gli scontri. Dopo volò in Cina, per raccontarne il conflitto col Giappone, il suo viaggio di nozze sui generis con Hemingway.

Lilli Gruber riporta che Martha Gellhorn era sempre là dove si scriveva la storia, nel bene e nel male. Una storia che ha segnato profondamente anche lei. Dopo essere entrata nel campo di concentramento di Dachau non fu più la stessa, affermò che quel che aveva raccontato non poteva fare altro che fomentare odio. Non nutrì più speranza di redenzione per il genere umano ma proseguì a raccontare gli scenari di guerra, comprendendo infatti che gli uomini nel disordine incondizionatamente orrendo dei conflitti ci sguazzavano bene, per natura. Quelle azioni insensate, almeno, sono state raccontate da chi non ha mai nascosto la verità ai lettori e appoggiato le macchinazioni dei governi. Martha Gellhorn per una vita si battè per rendere iniqua la definizione di ‘guerra giusta’, a partire dal Vietnam che documentò con nitida crudezza, com’era nel suo stile: “Personalmente, ero convinta che il mio lavoro fosse rendere noti i fatti, nella speranza che, prima o poi, diventasse impossibile mentire su ciò che era successo”.

Un libro come La guerra dentro è da far leggere ai più giovani per fornirgli un faro da seguire, sono gli esempi che mancano nella nostra società, modelli benefici da imitare e in questa biografia che potremmo definire corale, non solamente centrata sulla vita della grande inviata di guerra, ce ne sono molti che insegnano a vivere.

Nessuno può impedire ad una donna di vivere la sua vita”: questo, probabilmente, è uno dei lasciti più significativi di Martha Gellhorn che scelse unicamente per se stessa, libera da condizionamenti. E scelse anche la sua morte. Una pillola di veleno, dopo una lotta estenuante col cancro. Non lasciò l’ultima parola nemmeno alla nera signora.

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