«Più che contenere il virus, hanno preferito contenere il panico». Francesca Nava indaga sul contagio nazionale. Da Bergamo

by Michela Conoscitore

La scienza sapeva, la politica era informata, la gente è morta”: la giornalista Francesca Nava con il libro, Il focolaio – Da Bergamo al contagio nazionale edito da Laterza, mette a tacere tutti i dubbi e le incertezze sulle settimane precedenti la sfilata dei carri militari nella notte di Bergamo, il 18 marzo 2020. La giornalista non risparmia nessuno, assegna ad ognuno, rigorosamente, colpe e mancanze com’è giusto che sia. Un’inchiesta accurata che dolorosamente ripercorre la prima fase della pandemia in Italia, e nello specifico in Val Seriana, epicentro massimale del contagio italiano.

Autorità reticenti e stizzose, medici e personale sanitario smarriti, poi la popolazione lasciata in balia degli eventi senza alcuna tutela e guida: nella Val Seriana, dove gli interessi economici hanno vinto sul benessere collettivo, un anno fa i tamponi erano introvabili come le mascherine e le ambulanze, chiamate, non arrivavano. “Qui si muore come mosche” era diventato l’adagio che, in quei giorni, rimbombava nella valle bergamasca, tra le più industrializzate d’Europa. Oggi la situazione, in piena terza ondata, non sembra cambiata di molto.

bonculture ha intervistato Francesca Nava.

Dottoressa Nava finora sulla pandemia si sono espressi scienziati e politici, Il focolaio invece è il racconto di una giornalista. Lei è stata la prima in Italia, cosa ha significato farlo attraverso lo strumento dell’inchiesta?

Faccio inchieste da anni, occupandomi di vicende, nazionali ed internazionali, molto lontane dal mio paese d’origine. Per la prima volta, l’anno scorso, mi sono resa conto che stava succedendo qualcosa di clamoroso proprio a casa mia. Essere bergamasca, rispetto ad altri miei colleghi, mi ha posto in una posizione più privilegiata perchè avevo informazioni di prima mano, grazie ad una rete di persone apicale rappresentata anche da medici di base, anestesisti e medici ospedalieri. Non solo, ho anche molte conoscenze nell’ospedale di Alzano Lombardo, e fin da subito mi sono arrivate informazioni che non coincidevano con la narrazione mediatica della vicenda, seppur in quel periodo l’attenzione era concentrata su Codogno, il Lodigiano e in Veneto. La prima cosa lampante di cui mi sono resa conto, proprio rispetto alle altre zone rosse di quel momento, è che ad Alzano Lombardo non erano stati adottati gli stessi protocolli, prese le stesse decisioni ma soprattutto continuavano ad arrivarmi testimonianze pesantissime di negligenze, omissioni, di errori che sembravano non essere frutto di questa tempesta improvvisa ma che probabilmente avevano radici profonde. Ho cominciato ad investigare, e nella prima lettera anonima che ho ricevuto da parte di due dottori dell’ospedale di Alzano venivano elencati tutti i provvedimenti che non erano stati attuati. Mi incuriosiva l’opinione pubblica che non si stava rendendo conto di quel che accadeva a Bergamo.

Prima del libro, come ha deciso di agire in quel momento?

Ho percepito l’urgenza di mettere ordine in quel che stava accadendo a Bergamo. Il primo articolo per TPI, con un milione di visualizzazioni, fece molto scalpore perché raccontai che ad Alzano Lombardo stava andando in scena un massacro e non si stava tutelando la salute pubblica, come invece era avvenuto nella zona rossa del Lodigiano, a poco meno di cento chilometri di distanza. Da quell’articolo Alzano ha ricevuto un’attenzione nazionale ed internazionale, poiché poche settimane dopo ci sarebbe stata la sfilata dei carri militari a Bergamo di cui avrebbero scritto il The New York Times, il The Guardians, sono arrivate addirittura troupe dal Giappone. Io stessa sono stata intervistata da giornalisti di dieci paesi esteri. La mia è stata una battaglia civica per scoprire il perché della mancata chiusura della Val Seriana, allo scoppio dei contagi. Le mie ricerche non hanno sbagliato visto che, oggi, è stata aperta un’inchiesta giudiziaria in cui sono stati chiamati a testimoniare i massimi vertici del Governo, della Regione Lombardia, medici ed epidemiologi, membri del CTS, sindaci, parenti delle vittime. In contemporanea si sta svolgendo anche una causa civile la cui prima udienza è prevista a Roma il 14 aprile: cinquecento parenti di vittime Covid hanno citato l’ex premier Conte, il ministro della Salute Roberto Speranza perché quel che è successo a Bergamo è paradigmatico di un sistema Paese che non ha tutelato la salute pubblica, e nella bergamasca lo ha fatto per interessi economici. La Val Seriana, con Alzano e Nembro, è la culla industriale della Lombardia, le decisioni non prese in quest’area dipendevano anche da questo fattore.

Quel periodo è stato contraddistinto da confusione e scambi comunicativi inefficienti come riportato anche dal viceministro alla Salute, Pierpaolo Sileri. Da cos’altro è stata caratterizzata la prima fase della pandemia in Italia?

Inizio col dire che non ci saranno condanne penali per quanto riguarda la mancata zona rossa, perché varrà la discrezionalità politica per i decisori, ovvero il bisogno di dover bilanciare la salute collettiva con gli interessi economici e sociali. Però penso che ci siano delle responsabilità politiche incontrovertibili, sono cinque gli indagati, appartenenti alla sanità lombarda. Quel che è successo a Bergamo riguarda tutti gli italiani, qui è stata messa su una strategia concordata tra Governo e Regione che, di fatto, ha dimostrato la totale impreparazione di un’intera classe politica, non solo nazionale ma anche regionale, che parte proprio dalla mancata applicazione del piano pandemico. Risalente al 2006, quindi vetusto, non aggiornato ma secondo la magistratura, se applicato, avrebbe potuto contenere e mitigare la potenza del contagio.

In quale modo?

Con le varie misure previste dal piano, tra queste il monitoraggio epidemiologico e virologico delle infezioni respiratorie anomale. In caso di allarme per un focolaio in un qualunque altro paese del mondo, in tutte le regioni italiane sarebbe dovuta scattare la fase tre. Per la magistratura sarebbe dovuta entrare in vigore dal 5 gennaio, e avrebbe attivato la rete dei medici sentinella, così facendo si sarebbero individuati quei focolai di infezioni anomali per contenerli e spegnerli. Tutto ciò non è stato fatto, il personale non ha ricevuto un’adeguata formazione, ma soprattutto non è stato effettuato un censimento delle strutture ospedaliere previsto dal piano pandemico regionale, per capire quali di esse sarebbero state idonee a ricevere malati infetti. Si sarebbe scoperto che l’ospedale di Alzano Lombardo, che non possiede un reparto di malattie infettive, per la propria strutturazione non era adatto ad ospitare malati Covid. All’interno del quale non è mai stato possibile, inoltre, creare dei percorsi sporco-pulito, nonostante l’arrivo dell’esercito e della Protezione Civile. Questo fa capire quanto la ricognizione sul campo sia importante. Non è stata una tempesta improvvisa, oggi sappiamo che il virus è entrato in Lombardia a metà gennaio e si è diffuso in modo silente, grazie agli asintomatici, il loro ruolo è stato sempre sottovalutato a partire dall’OMS, seguita a cascata dai vari ministeri alla Salute nazionali. Soprattutto non è stata una tempesta improvvisa ad Alzano, perché la ricetta per spegnere il focolaio in ospedale c’era, applicata poco distante a Schiavonia in Veneto con chiusura della struttura e sanificazione. Le aree di Vo’ Euganeo e Schiavonia però non sono zone altamente industrializzate, come la Val Seriana dove ha pesato più il profitto.

Il focolaio è un’inchiesta che raccoglie macro e micro storie per descrivere, soprattutto, quali sono state le conseguenze delle scelte dei decisori politici sulla gente comune, ignara. Quanto è stato difficile analizzare a sangue freddo quelle storie?

In quei mesi sono stata travolta dalle testimonianze e dalle storie. Per scrivere il primo articolo ci ho impiegato due settimane perchè mi sono posta una domanda, da giornalista e cittadina bergamasca: è opportuno pubblicare adesso un’inchiesta che solleva dei dubbi così pesanti sulla gestione della pandemia? Quello era un momento caratterizzato da infodemia, panico generalizzato, significava quindi instillare altre angosce e preoccupazioni nell’opinione pubblica. Così ho deciso di ritardare l’uscita del primo pezzo. Inizialmente non avrei nemmeno voluto occuparmi della vicenda, mi sentivo troppo turbata ed emotivamente coinvolta. Poi il direttore di TPI mi ha convinto affinché lo facessi, come in seguito ha fatto la casa editrice Laterza. Anche io ho compreso che era un mio dovere quello di verificare ciò che stava accadendo e scriverne. Mi sono presa una pausa, ho deciso di staccare, dare le dimissioni in Rai, e tornare a Bergamo. Non ho fatto altro che piangere e scrivere di tutto quel dolore che mi veniva addosso.

Oggi durante la terza ondata, pensando anche al caos vaccini in Lombardia, è cambiato qualcosa rispetto alla prima fase della pandemia?

No, le cose sono solo andate peggiorando. Il grande peccato originale, per quanto riguarda la Regione Lombardia, è quello di aver dato vita ad un sistema sanitario in cui è stata penalizzata la medicina del territorio ma soprattutto la prevenzione, e ovviamente questo non si ricostruisce in pochi mesi. Ci vorrà un lungo percorso legislativo, e di dibattito politico, per mettere mano a questo modello ‘ospedalocentrico’. Non solo, ripeto, le cose non sono cambiate ma addirittura peggiorate perché quel po’ che si poteva fare per migliorare non è stato fatto: una lettera aperta con le indicazioni di alcuni medici dell’ospedale “Giovanni XXIII” di Bergamo, pubblicata sul The New England Medical Journal, suggeriva le modalità con cui scongiurare un secondo collasso del sistema sanitario come la creazione di cliniche mobili. Non si è investito sul monitoraggio, mancano epidemiologi, non c’è competenza nelle varie realtà politiche, regionali e nazionali. Stiamo parlando di un sistema fallace che va ripensato. I morti della seconda e della terza ondata hanno superato quelli della prima, nessuno ne parla più, stanno morendo in silenzio, ora è centrale la questione vaccini. Rispetto alla prima ondata, per esempio, le mascherine ci sono ma il contact tracing in Lombardia è saltato all’inizio della seconda ondata perché le ATS (Agenzie di Tutela della Salute, ndr.) passate da quindici a otto, dei carrozzoni vuoti senza professionalità adeguate, devono occuparsi di un numero troppo alto di cittadini. Questa è una violazione dei diritti umani, tagliare sulla prevenzione non ci troverà mai pronti alle ondate pandemiche.

Durante la recente lectio magistralis che Giuseppe Conte ha tenuto all’Università di Firenze, l’ex premier ha affermato che durante la pandemia il dialogo tra scienza e governo è sempre stato molto fitto. Ha richiamato l’art. 32 della Costituzione, dichiarando che non avrebbe mai potuto avvallare scelte indirizzate al darwinismo sociale e che è sempre stato orientato alla tutela della salute dei cittadini. Alla luce del suo scambio epistolare con l’ex premier, da bergamasca come commenta queste sue affermazioni?

Il premier Conte ha avuto il merito di rispondere alle mie domande. A quella lettera è seguita una nota informativa sollecitata proprio da quel che gli avevo chiesto. L’ho incontrato personalmente a Bergamo, in prefettura, il 28 aprile: quando l’ho incalzato con le domande, molti ricorderanno la brutta risposta che mi ha dato. Gli avevo chiesto della mancata zona rossa in Val Seriana, della finta zona rossa in Lombardia quando scuole e negozi sono rimasti chiusi ma non le fabbriche, in una regione con quattro milioni di lavoratori, un milione e ottocento di loro non possono lavorare in smart working perché operai in fabbriche siderurgiche, chimiche o tessili. Con la Fondazione Claudio Sabatini di Bologna abbiamo calcolato che durante il lockdown quando tutti erano a casa, nell’epicentro della pandemia 30 mila persone erano autorizzate a lavorare proprio perché si è scelto di non chiudere le fabbriche. Quando Conte dice che si è tutelata la salute, dovrebbe avere l’onestà intellettuale di spiegarci perché nella regione più industrializzata d’Italia non si è deciso subito di bloccare le attività non essenziali. Queste sono state chiuse con il Dpcm Chiudi Italia, il 23 marzo, un mese dopo lo scoppio dei contagi. Sempre con la Fondazione Sabatini abbiamo dimostrato che dopo questo Dpcm milioni di persone, pensando anche al Veneto e al Piemonte, hanno continuato a circolare perché le deroghe prefettizie hanno permesso anche ad attività non essenziali di rimanere aperte. Questa è stata una grande ipocrisia, e molti lavoratori della bergamasca non sentendosi tutelati dallo Stato hanno fatto scioperi spontanei, o si sono messi in malattia decidendo di non andare a lavorare. In un paese civile non può accadere che si scarichi la responsabilità sul singolo lavoratore di tutelare la propria salute.

Qual è il suo fermo immagine di quel periodo, una fotografia che le rimarrà impressa per sempre?

Il mio fermo immagine è lo stesso di altri milioni di italiani, che mi ha anche causato molta rabbia, l’immagine simbolo dei carri militari a Bergamo. Il fatto che si sia deciso di chiudere l’Italia col Dpcm Chiudi Italia il 23 marzo, a cinque giorni di distanza da quei carri militari ci dà il senso di tutta la debolezza della nostra politica. Una politica dove occorre il consenso, che ha bisogno di immagini choc per scuotere l’opinione pubblica, perché tutti sappiamo che dopo quelle immagini c’è stata un’ovazione pubblica generalizzata in cui si implorava di chiudere la Lombardia e le fabbriche, non era più possibile gestire quella quantità di dolore e sofferenza ma anche umiliazione. L’Italia stava dimostrando, nella sua regione più industrializzata e avanzata, che aveva adottato misure insufficienti. Più che contenere il virus, hanno preferito contenere il panico. Vogliamo una politica che non agisca dopo immagini scioccanti, ma che investa sulla prevenzione. Il problema è che la prevenzione non porta consensi, e non porta voti. Centinaia di migliaia di euro in azioni di politica sanitaria che non sono spendibili a livello elettorale. Il lockdown in Italia è stato l’estrema ratio del fallimento della nostra politica.

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