Sacro minore di Franco Arminio, il rosario laico e poetico dell’immanenza che guarisce

by Antonella Soccio

Con Sacro minore, edito da Einaudi, il poeta a paesologo Franco Arminio, chiude la trilogia sulla malattia e la guarigione, cominciata in piena pandemia con La cura dello sguardo e proseguita con Studi sull’amore.

Non a caso il libro più intimo e icastico, orizzontale come ha scritto più di un critico e ancora più colmo di horror pleni con il bianco della pagina ad essere esso stesso icona da immaginare, si conclude con il verso “Sacro è guarire’, quasi a ricordare la etimologia sanscrita della parola sacro, che è sì ciò che divide ed è separato, ma anche il suo contrario, “ciò che unisce”, ricomponendo l’intero e che quindi guarisce, secondo tante psicoterapie junghiane e lacaniane.

Sarebbe troppo semplice e banale iscrivere i versi e i distici di Arminio nella religione delle piccole cose o in un panteismo da villaggio mondo, sebbene egli stesso vi dedichi una poesia “Sacre le cose minute, minutissime/ le sorelle dell’invisibile”.

Ed ecco allora l’inevitabile confronto tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo di pascaliana memoria, tra il dentro e il fuori, che nella paesologia diventa il dialogo tra entroterra e metropoli costiere, centro e periferia, quando scrive “Sacro è il vento grande che c’è fuori/ e il vento piccolo del respiro” o “Sacro ha a che fare/ con l’infanzia, la tua/ e quella del mondo“.
Nel nominare il sacro, nel dargli essenza Arminio tenta di costruire col suo breviario poetico un sistema soprannaturale immanente, anche quando consapevolmente sfiora il mistico dell’assenza e del vuoto “Sacro/è un fiocco di neve/che entra in una casa/ dalla finestra rotta“. O quando naufraga dolcemente nel nichilismo “Sacro è che siamo tutti appesi a un filo/ e il filo non è appeso a niente”.

L’Essere del sacro è un minutare le cose, i luoghi, gli animali, le emozioni perdute, gli affetti della famiglia di origine ancora così prepotentemente presenti nella sua poesia.
I versi apodittici di Arminio appaiono nella loro nudità e nella loro eterna ed infinita reiterazione come un rosario, un elenco in preghiera laica. Ed allora ognuno può scovare il proprio personalissimo sacro in un anfratto minimo e minore del proprio quotidiano o della propria memoria, perdendo ogni caratteristica di universalità e/o trascendenza.
Il poeta rifugge anche qualsiasi tentazione messianica, che sovente gli viene rimproverata dagli scoraggiatori militanti, e spiega con metafore d’altare e di croce l’indefinitezza dello scrivere, che mai può dirsi assoluto: “Sacro/è che vorresti rigare la vita/ con la scrittura, / ma la scrittura è un chiodo di pane, /non scalfisce nulla, / si sbriciola tra le mani“.

Il tremore, i germogli, il ghiaccio, il chiarore, le ginestre non fiorite, la nebbia. È sacro sempre l’appena nato, il non più e il non ancora. Come in un transito.
Interessante ancora una volta l’attenzione ai defunti. Invece delle cartoline, moderne iscrizioni “sulla collina” di una Spoon River dell’Italia interna, l’intellettuale di Bisaccia propone un atto poetico alla Jodorowsky con i frutti come grani, perché enumerare è già vivere: “Sacro nel tempo delle ciliegie/comprarne un chilo/ e andare al cimitero./ Mettere due ciliegie/ ad ogni morto/ fino a quando non finiscono “.

Arminio è sempre rivolto all’altro, sia questo altro un paese, un vitello, una donna, un ricordo. La sacralità si rintraccia nella relazione, ma non quella con un Dio, motore immobile, Divino o grande Altro, ma quella del qui ed ora, con chi è stato importante, pur senza saperlo o volerlo. “Sacro è aver amato lungamente/ chi non ci amava”.

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