Splendore di Margaret Mazzantini: amare liberamente è non vergognarsi del viaggio

by Giorgia Ruggiero

Cos’è l’amore? È una crepa.

Un’intima lacerazione del nostro corpo, il tentativo di farsi spazio nel mondo di un altro. È lo sforzo, spesso inconcludente, di voler entrare nella sua sopravvivenza, la pretesa di conoscere le sue ferite.

Eppure quanta luce proviene da questa crepa, ché amare è sminuzzarsi e sperare che la crosta di quel taglio, una volta rimossa, rilasci luce. Sia splendore.

A raccontare magistralmente questa prova disperata è Margaret Mazzantini, maestra nel dire del dolore, delle crepe e delle ferite – in effetti – dell’amore.

Splendore, infatti, è un libro che l’amore lo indaga in ogni sfumatura, che lo va a prendere e ci fa insieme un tratto di strada, come due amici. Come dire a qualcuno: raccontati.

Guido e Costantino sono uno l’apogeo dell’altro. 

Guido, che racconta, è il figlio di un medico che vive appartato in quella che agli occhi altrui sembrerebbe una famiglia serena – solo perché economicamente stabile- che in realtà gli fa sperimentare, da subito, una sofferta solitudine: è un già capace di interrogarsi sul senso profondo della sua vita e insieme di confrontarsi con l’ombra, sempre più dilagante nella sua già larga tristezza, del dubbio di essere un inetto. Costantino, d’altro canto, è il figlio del portiere. La sua famiglia è umile, e lui è inquieto, dubbioso quanto Guido. È incompleto, come ogni suo coetaneo. Ti mette alla pari, ti vuole bene. È buono, Costantino.

La vita ha in serbo per loro un doloroso disegno, che vede la sua prima traccia dall’infanzia dei due, che abitano nello stesso palazzo. Si incrociano nella tromba delle scale, e a volte il profumo del pranzo di una delle due famiglie s’insidia nel naso dell’altro: ora si mischiano gli odori dei pasti, ma presto il destino, incurante e maleducato, mischierà anche le loro adolescenze, le loro vergogne, e dopo ancora, il resto delle vite stesse.

Tra le risse e gli anni del liceo, Guido e Costantino si innamorano, e per quanto assolutamente incompatibili siano i due verbi, se ne vergognano. Perché il mondo – siamo in una storia che inizia negli anni sessanta –  è ancora sprezzante, ha ancora la scusa del contro natura per giustificare il pregiudizio nei confronti di chi, semplicemente, ama: “E davvero accadde. E fu contro natura. E davvero vorrei sapere che cos’è la natura.”

L’unico modo per guarire l’incessante senso di colpa, la ferita di non essere liberi, è allontanarsi, cercare di condurre due vite parallele.

Allora col tempo ci saranno le mogli, i figli, la distanza necessaria tra Londra, la città di Guido, e Roma, quella che è rimasta di Costantino. C’è tutto quello che serve per dimenticarsi.

Ma il taglio brucia. E li insegue.

Li insegue nel viaggio della loro vita, nelle molteplici accuse che si lanceranno addosso, come se l’uno oltre ad essere la luce dell’altro, fosse anche il motivo dell’oscurità, dell’ombra di sentirsi inetti, fosse il bene e fosse il male:

“Tu hai sempre visto solo la tua parte, Guido”

“… e invece volevo dirgli tu sei la mia parte.”

La stessa parte che proveranno a ripudiare, a mettere via, come se non fosse loro, come se non gli appartenesse.

Ma la presa di coscienza è imprescindibile, è urgente. Perché amare liberamente è 

non vergognarsi del viaggio.

Anche se è uno sfacelo, perché è tutta la sofferenza che proviamo per sopprimere il nostro sofferto – eppure necessario – tentativo di amare il nostro splendore.

“Non mi ha mai amato”

“Ma tu hai amato lui. Può bastare… credimi.”

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