Uno scienzavirus o un manifesto di razionalità: un dialogo con Andrea Grignolio

by Felice Sblendorio

Cosa resterà del coronavirus e dei sentimenti di panico, paura e ansia che hanno attanagliato per una settimana il Paese Italia? Forse, dopo giorni caotici all’insegna di un dibattito pubblico schizofrenico, resterà il tracciato della scienza, della medicina, della razionalità.

Ma cosa succede quando siamo influenzati da dati, notizie, informazioni e atteggiamenti iscritti nella nostra residua “razionalità limitata”? bonculture l’ha chiesto ad Andrea Grignolio, docente di Storia della Medicina e Bioetica all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e al Cnr, e autore di un saggio illuminante, Chi ha paura dei vaccini, edito da Codice. 

Partirei dalle parole che, com’è noto, costruiscono mondi, paure e azioni. Professor Grignolio, che cos’è l’emergenza coronavirus: epidemia, pandemia, strage, peste? 

Per ora è indubbiamente un’epidemia. L’OMS sta cercando di capire se si potrà utilizzare il termine pandemia. Un virus passa da epidemia a pandemia quando vengono riscontrati in diversi Paesi ceppi autonomi, e questo sembra sia alle porte. 

In questi giorni ci siamo mossi fra due poli: il terrore e il tentativo di minimizzare. Fattore umano oppure, come scrive nel suo libro, la nostra attuale “razionalità limitata” aggrava tutto? 

La nostra razionalità limitata aggrava tutto perché abbiamo una serie di bias cognitivi, degli errori sistematici nella valutazione degli eventi, in particolar modo di quelli che coinvolgono le percentuali e le probabilità in generale. Quando si verificano epidemie c’è sicuramente un surplus perché la paura delle malattie infettive viene da un lontano passato evolutivo. Credo sia utile ricordare l’approccio di Schaller che, nel 2004, teorizzò il “sistema immunitario comportamentale” e scoprì che anche il comportamento, oltre il corpo e il sistema immunitario, è stato selezionato dalle epidemie del passato e tende a proteggerci dall’interazione con virus e batteri. Il comportamento di homo sapiens di fronte al rischio epidemico diventa profondamente irrazionale, emergono comportamenti che tendono verso la chiusura dei rapporti umani, introversione della società e spinte antidemocratiche e persino xenofobe. Questo virus che oggi analizziamo non sfugge a questo inquadramento generale. Nella popolazione queste spinte però non riguardano tutti: chi va a svuotare i supermercati, facendo rumore e notizia, è una percentuale ridotta. Mi piace ricordare la lezione di Primo Levi, uno scienziato, un chimico per la precisione, che notò la polarizzazione del comportamento umano di fronte a pressioni e stress: nei campi di concentramento: c’era chi immaginava ogni giorno l’arrivo imminente degli alleati e chi immaginava da un giorno all’altro la soluzione finale. Questi due poli di una virtuale campana gaussiana ci sono sempre. Il nostro compito è quello di insistere sulla parte centrale, quella che si fonda sull’utilizzo critico della ragione. 

Lo scenario possibile nelle prossime settimane intravede una fase di contenimento. Le misure adottate, considerando anche casi pregressi, sono state corrette?

Sì, sono state corrette. Non mi sento di muovere critiche. Qualche giorno fa, sebbene non vi fossero dati solidi, avevo azzardato uno scenario europeo simile a quello italiano. Sono di ieri le notizie dei primi casi significativi di coronavirus in Francia, Germania e altri Paesi. Detto questo, l’unico appunto possibile potrebbe essere una critica contro la decisione, forse troppo emotiva, di chiudere i flussi dalla Cina tout court. Il punto non era quello: bisognava limitare gli scali, ma non in modo generalizzato. Bisognava comprendere le zone di provenienza e circoscrivere quelle colpite in maniera decisiva dal virus. Chi non poteva arrivare direttamente dalla Cina, ha deciso di triangolarizzare su altri scali europei, sfuggendo ai controlli. Ma oggi sappiamo che il virus già circolava tra la fine di dicembre e i primi di gennaio, quindi prima delle decisioni di limitare i flussi aerei. Quindi anche una più accorta gestione degli scali, suggerita dall’OMS, non avrebbe fatto probabilmente grande differenza. 

La scienza serve a mitigare il panico, ridimensionare il pericolo. In queste ore abbiamo sentito contrapposizioni fra esperti che, sommate alla costruzione simbolica dei media, hanno creato un panico percepito notevole. Quando la scienza si parla addosso, anche frettolosamente, quali pericoli genera

Sinceramente non ho percepito una netta divisione nella comunità scientifica. Direi che sono diverse percezioni di uno stesso fenomeno. Il virologo guarda le cose da un punto di vista molecolare, nello specifico il tasso di incidenza e di rischio che un virus nuovo può creare; il clinico in ospedale misura e vede i singoli casi e le gravità fra loro; l’epidemiologo controlla e lavora su grandi dati. Direi che tutti tendenzialmente hanno ragione. La scienza è complessa da spiegare. La ricercatrice del “Sacco”, probabilmente sotto grande stress, ha comprensibilmente consigliato di non esagerare a rappresentare gli effetti di COVID-19. Detto questo: è scorretto dire che il coronavirus è paragonabile ad un’influenza stagionale, perché non è vero. Ma è anche giusto ribadire che questa è una situazione seria, seppur non grave. Io, che mi sono occupato di percezione sociale del rischio applicata ai vaccini, considero deleteria l’oscillazione interpretativa. Per creare fiducia tra la popolazione e le istituzioni sanitarie bisogna essere abbastanza coerenti. È ovvio che si crea panico se prima si chiude tutto e poi si dice che non c’è nessun problema e possiamo ritornare alla vita di qualche settimana fa, nel giro di una settimana. Questa oscillazione è pericolosa perché confonde la percezione pubblica e crea sfiducia e questa porta una parte dei cittadini a gesti come svuotare i supermercati: se non si ha più fiducia nelle notizie istituzionali si attiva la parte irrazionale di ognuno di noi. 

Bisognerebbe specificare, allora?

Bisognerebbe procedere in modo modulare: le zone rosse vanno contenute, ma poi la vita delle altre regioni e delle altre città dove non circola il virus deve continuare. Non è facile ovviamente. Bisogna ampliare, ad esempio, le terapie intensive negli ospedali. Bisogna seguire tutto con raziocinio, seguendo il virus in modo modulare e non esteso. Solo se il virus dovesse diventare epidemico, allora è necessario ricorrere alle misure draconiane cinesi. È fondamentale, inoltre, una regia nazionale che segua il cammino del virus zona per zona, perché l’epidemia contagia pezzi di paesi, zone appunto. Almeno sinora. 

Nel suo libro “Chi ha paura dei vaccini segnalava tre problematiche attuali: il numero di persone coinvolte in fenomeni novax, lo status sociale e la regressione della copertura vaccinale. Oggi cerchiamo, senza un vaccino che lo faccia in maniera puntuale, di circoscrivere questo virus: è il primato della scienza?

Penso proprio di sì. Oggi tutti i giornali titolano: la parola alla scienza. Questa fiducia, in un Paese come il nostro, è una novità. L’Italia viene dal caso Stamina e dalla crisi sulle basse coperture vaccinali. Qualcosa di diverso, e di migliore, in queste settimane si è visto, soprattutto nel rapporto fra decisori politici e chi si occupa di evidenze scientifiche. Ovviamente sono cautamente ottimista perché studiando questi fenomeni nel tempo ci siamo resi conto che hanno sempre una curva discendente. La popolazione e i politici tendono a dimenticare molto velocemente in assenza di rischi. Spero vivamente che questa sana unione fra scienza, istituzioni e cittadinanza, oltre l’emergenza dettata dal coronavirus, duri nel tempo e si strutturi ad esempio nei programmi scolastici, che devono essere rinforzati in abito scientifico e neuro-cognitivo. 

Questa è la prima epidemia del mondo 2.0. e, quindi, la prima a confrontarsi con distorsioni come il complottismo e la riduzione della complessità. Qualemiccia accende tutto ciò?

È una domanda importante: le questioni, in questo caso le epidemie, sono estremamente complesse. Quando è comparso il COVID-19 c’è stata una grande discussione sull’asintomaticità dei pazienti e poi sul tasso di letalità. Tutte queste informazioni, senza il loro contesto, dicono davvero poco. La Spagnola, che è stata la più grande pandemia del ‘900, aveva un tasso di letalità simile al coronavirus, fra il 2.2 e il 2.5. Cosa rende grave il tutto, allora? Il contagio, cioè la diffusione. Bisogna tenere in considerazione diversi fattori quando si valuta un virus. I medici e gli esperti devono dire tutto su COVID-19? Da ieri per cercare di ridimensionare il panico, sappiamo poco dei nuovi decessi come nome, età e condizioni cliniche. In questi casi bisognerebbe trovare una quadra fra la semplificazione odiosa e insopportabile che i social danno dei fenomeni complessi, e che spinge alcuni esperti a desiderare di filtrare le informazioni per non ingenerare panico nella popolazione, e l’irreale desiderio di poter comunicare tutto a tutti, poiché per valutare tassi di letalità, mortalità, indici di diffusione epidemica, occorrono sofisticati strumenti cognitivi e una visione ampia che serve per comparare l’epidemia attuale con quelle simili e dissimili del passato. Ricordiamoci che quando c’è una crisi nella comunicazione di simili informazioni aumentano le teorie del complotto. Oserei dire che per cercare la quadra potremmo riferirci al concetto di accountability degli esperti: essi devono dare conto in modo responsabile. Come? Sicuramente non ti devo dire tutto, ma non devo nemmeno omettere le informazioni rilevanti per la salute pubblica. 

Attendendo una provvidenziale pioggia manzoniana”, che lavi via il contagio e la sua relativa paura, che cosa resterà? Più responsabilitàpiù impegno in campo degli scienziati, più fiducia della politica nella scienza? 

Lo auspico. In questi anni sono stato abbastanza critico sul ruolo che hanno avuto i comunicatori scientifici. Non hanno tutte le responsabilità, certo, ma bisogna sforzarsi per fare una buona divulgazione accanto agli scienziati e non sempre in contrasto con loro. Ovviamente il patto centrale devono stabilirlo gli scienziati e la cittadinanza. Servirebbe una capillare diffusione, come ha teorizzato lo psicologo James Flynn, di quei concetti chiave – effetto placebo, gruppo di controllo, errori cognitivi, leggi di mercato – che avvicinano e predispongono la società nel quadro interpretativo e metodologico della scienza. Inoltre, spero rimanga nella politica una seria e strutturata fiducia nella scienza e nei confronti di chi prende decisioni basate su evidenze. Bisognerebbe inserire nei gabinetti dei vari ministri dei “consiglieri scientifici” per contagiare i politici non di un coronavirus ma di uno scienzavirus, utile a chiunque prenda decisioni cruciali per ciascuno di noi e quindi per l’intero sviluppo e innovazione della società. 

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