“Da 32 anni recupero la musica scritta nei campi di concentramento”. La storia di Francesco Lotoro

by Fabrizio Simone

Da 32 anni un pianista di Barletta, il Maestro Francesco Lotoro, cerca incessantemente in tutto il mondo la musica composta all’interno dei campi di concentramento e in altri luoghi di cattività militare e civile tra il 1933 e il 1953, anno della liberazione degli ultimi prigionieri di guerra detenuti nei campi sovietici.

Le partiture recuperate dal M° Lotoro sono custodite presso la Fondazione Istituto di Letteratura Musicale Concentrazionaria, che ha sede a Barletta, presieduta dallo stesso Lotoro. La sua ricerca forsennata lo porta a rintracciare, archiviare e ad eseguire musica di cui credevamo d’aver perso ogni traccia.

Bonculture ha voluto incontrare questo autentico custode della musica concentrazionaria per capire meglio il suo importantissimo progetto.

Cosa l’ha spinta a ricercare le tante composizioni scritte nei campi di concentramento e di detenzione?

Ho iniziato quest’impresa nell’88, quando l’Europa era in subbuglio. Sicuramente la curiosità e la passione hanno avuto un bel peso, però anche il fuoco ebraico che già allora bruciava dentro di me (mi sono convertito all’ebraismo solo nel 2004) e la tendenza un po’ onnivora che ti porta ad allargare il repertorio. Col tempo, poi, ulteriori motivazioni hanno fatto in modo che io potessi continuare a viaggiare alla ricerca di queste 8 mila partiture. Adesso, ad esempio, sto svolgendo in tutto il mondo 100 viaggi: ho fatto una sfida col direttore del dipartimento musicale dell’Holocaust Museum, il quale mi chiese quanti viaggi mi servivano per completare questa ricerca. Io risposi: “1000”. Lui disse che erano troppi. Perciò ho tolto uno zero ed è partito il progetto. Ne ho fatti già 30. Questi ulteriori 70 viaggi vanno fatti perché bisogna incontrare i sopravvissuti che ci stanno lasciando. Quando ho iniziato questa ricerca internet non esisteva. Bisognava viaggiare, fare chiamate intercontinentali, effettuare ricerche in biblioteca però c’erano molti sopravvissuti.

Qual è il genere più in voga tra le partiture da lei messe in salvo?

Ho trovato di tutto. Ci sono generi che oggi stanno sparendo: penso al cabaret e alla parodia. C’è tanta musica religiosa scritta da cristiani ed ebrei. Ma anche produzioni sinfoniche per grandi orchestre e cori di proporzioni notevoli, opere da allestire in due giorni in campi di prigionia militare (nelle opere leggere e nelle commedie le donne erano impersonate da uomini che si depilavano e si truccavano da donna con una cura maniacale). Ci sono anche opere impegnative in cinque atti scritte sulla carta igienica perché i prigionieri politici erano gli unici che non potevano scrivere. Perciò scrivevano con pezzi di lapis o con la carbonella vegetale (carta igienica e carbonella vegetale erano presenti abbondantemente per curare la dissenteria). Sembra un sistema primitivo, eppure con questo metodo Rudolf Karel scrisse 660 pagine di un’opera lirica, I tre capelli del vecchio saggio, un nonetto, pezzi per pianoforte, altri piccoli pezzi e pezzi corali. Ovviamente sulla carta igienica non si poteva organizzare un’intera partitura per orchestra perciò bisognava concentrare in due righi di pianoforte tutta la musica che noi, 70 anni dopo, sviluppiamo senza molta difficoltà. Però c’erano campi in cui si disponeva di grande e copiosa carta da musica, ma c’erano anche quaderni che venivano usati per tracciare il pentagramma. Questo sistema fu adoperato da un grande italiano, il capitano di fanteria Berto Boccosi, imprigionato nel campo franco-algerino di Saida, che mise in musica La lettera scarlatta di Hawthorne, su libretto italiano di Umberto Pavia.

Tra i tanti deportati, c’è un compositore a cui si sente più vicino o in qualche modo più legato?

In questa ricerca bisogna essere come il cuoco: non puoi farti piacere un piatto più di un altro. Però come pianista penso a Viktor Ullmann, ma ho anche suonato e registrato tutta la musica di Jozef Kropinski, di cui sono grande amico di uno dei due figli, Waldemar, che vive a Norimberga. Recentemente, invece, mi sono molto avvicinato alla musica pianistica dei francesi e degli italiani imprigionati prevalentemente in qualità di prigionieri di guerra.

Oltre a Berto Boccosi, chi sono gli altri compositori italiani che abbiamo rimosso?

Basta citare Giuseppe Selmi, internato presso il campo di Tarnopol, in Ucraina. Qui stese il bellissimo Concerto spirituale per violoncello e orchestra su tanti quadernini nascosti in punti diversi perché, in caso di conquista da parte dei tedeschi, avrebbe perso alcune pagine della partitura ma non la partitura completa. Il secondo movimento del Concerto, l’Adagio, nel ’56 vinse il Concorso di composizione Viotti. Per tornare a Boccosi, La lettera scarlatta fu eseguita una sola volta, nel Teatro Pergolesi di Jesi, nel 1962. Penso anche alla coppia Guareschi-Coppola: nel campo di Sandbostel il papà di Don Camillo scrisse La favola di Natale con le musiche di Arturo Coppola, un capolavoro degno di ogni sala da concerto al pari di Pierino e il lupo e Babar l’elefantino. La favola di Natale fu eseguita 10 volte nello Stalag con un organico che comprendeva soltanto fisarmonica e ocarina. Altri strumenti vennero prestati dai prigionieri militari francesi che si trovavano separati dagli italiani nell’altra parte del campo. Guareschi e Coppola scrissero anche diverse canzoni nel lager come la goliardica Dai dai Bepin, con cui invitavano l’armata rossa ad accelerare la liberazione. Nello stesso campo c’era anche un altro grandissimo compositore italiano, il napoletano Salvatore Musella, che scrisse un’opera, Il fabbricatore di Dio, irrimediabilmente perduta. Gino Marinuzzi jr, invece, nelle miniere di carbone di Ludwigshafen am Rhein scrisse i Lagerlieder per pianoforte a quattro mani su sacchi di liuta. Di Giuseppe Capostagno voglio ricordare la Suite Himalayana, eseguita tre anni fa a Catania. Dopo la caduta di Asmara, in Eritrea, fu spedito a Bombay dagli inglesi, e da lì nel campo di detenzione di Yol, dove gli italiani mettono su un’orchestra, che viene inviata a Delhi per concerti, e proprio qui Capostagno esegue la sua Suite, vincendo un festival musicale.

C’è una composizione, in particolare, tra le tante recuperate che le sta a cuore?

Quelle che mi stanno più a cuore, solitamente, sono quelle che riesco a estrarre chirurgicamente dalla memoria dei sopravvissuti. Quindi parlo di musica non scritta ma trasmessa a memoria come inni e canzoni.  Tutte le melodie che vengono ricordate a memoria, per me, hanno una sorta di precedenza perché non hanno beneficiato della cristallizzazione della carta e vivono ancora nell’aria. Io ho recuperato circa 8000 partiture, ma un numero altrettanto grande di documenti vive ancora in dischi di 45 giri, 33 giri, 75 giri, dischi di ceralacca, cassette, e queste altre 8 mila partiture vanno sviscerate e tutto ciò richiede ulteriori anni. Alla fine avremo circa 15/16 mila partiture e 8 mila compositori catalogati. Per compositori intendo il compositore di musica esatta, l’arrangiatore, il band leader o il testimone musicale. Stando ai miei calcoli, i compositori rinchiusi nei campi e che scrivono dal ’33 al ’53 saranno circa 150/160 mila. Il mio lavoro non è ancora finito, insomma.

Ha conosciuto personalmente qualche compositore scampato ai lager nazisti?

Il primo che incontrai fu Karel Berman. Era l’89. Purtroppo mi parlò per due ore in tedesco e io non capii quasi nulla. Io avevo 24 anni e non avevo il coraggio di interromperlo per dirgli che non comprendevo la sua lingua perché ero davanti alla Storia e la Storia non la puoi interrompere. Ho conosciuto la sorella maggiore di Gideon Klein – di cui abbiamo eseguito diverse opere a Foggia – la pianista Eliška Kleinová. Il corpo del fratello non fu mai trovato e lei per anni continuò a crederlo vivo, in assenza di prove materiali. Alla Notte degli Oscar hanno dato l’Oscar alla Memoria a Jacques Garfein , morto il 30 dicembre. Garfein, insieme alla sua famiglia, arrivò a Birkenau a 13 anni, nel 1943. Davanti al dottor Mengele dichiarò d’avere 16 anni e questo gli permise di salvarsi. Da Birkenau fu trasferito a Bergen Belsen e quando arrivò la Croce Rossa, Garfein, non potendo muovere le gambe, fu mandato in riabilitazione. In un anno riacquistò l’uso delle gambe. Una borsa di studio gli permise di emigrare in America. Lui mi contattò tanti anni fa dopo aver letto un articolo che parlava di me sul Washington Times. Durante la prigionia si conficcò nella sua memoria una canzone cantata da un ragazzo polacco. Dopo 70 anni sentiva la necessità di cantarla a me. Mi fece chiamare da una segretaria da Roma. Io ero in Israele. Venne a Barletta e ci incontrammo davanti al Castello.

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