George Michael candidato nella Rock & Roll Hall of Fame

by Claudio Botta

Una petizione su Change.org avviata lo scorso anno da Diana Foster ha avuto il merito di gettare il sasso nello stagno. E così George Michael, a sei anni dalla morte avvenuta nel giorno di Natale, festeggiato in tutto il mondo dal 1984 con la sua ‘Last Christmas’ in martellante sottofondo, è ufficialmente per la prima volta nella rosa dei quattordici candidati per l’ingresso nella prestigiosa Rock & Roll Hall of Fame. Il massimo riconoscimento per una carriera, in quegli stessi Stati Uniti dove la sua era arrivata al capolinea per uno scandalo sessuale (l’arresto per atti osceni il 7 aprile 1998 in un bagno pubblico di Beverly Hills), dopo la consacrazione culminata con lo status di divo planetario ottenuto con 10 milioni di copie vendute (disco di diamante) da ‘Faith’, il suo strepitoso esordio solista, il relativo tour sold out ovunque e due Grammy Awards, rispettivamente per la migliore performance nella categoria R&B in coppia con Aretha Franklin e per l’album dell’anno, nel 1989. Un tributo postumo che appare scontato e doveroso – nonostante la variegata concorrenza, dagli Iron Maiden a Cindy Lauper, dai Joy Division e New Order (con e senza Ian Curtis) ai Soundgarden, dai Rage against the machine a Sheryl Crow – che permette di mantenere ancora vivo il ricordo di uno straordinario cantante, autore, performer, polistrumentista, produttore, per la sua musica e la sua arte e non (solo) per la vita tormentata e gli eccessi antidoto letale per affrontare e tenere a bada dolori impossibili da superare.

Il documentario “Freedom: Uncut” (in Italia visibile su Prime Video), cui ha lavorato fino a qualche giorno prima della morte nella sua magione a Goring-on-Thames, nell’Oxfordshire e poi completato dal suo amico d’infanzia David Austin, aveva già offerto l’opportunità di scoprire l’uomo, la persona, non solo di celebrare una galleria ricchissima di successi e di andare in profondità nei lati oscuri dello show business. L’infanzia segnata dal rapporto difficile col padre Kyriakos (Jack), ristoratore greco-cipriota emigrato a Londra, e dall’amore della madre Lesley. L’incontro con Andrew Ridgeley, uniti dalla comune passione per la musica. I primi timidi tentativi, la nascita degli Wham!, il nome di battesimo Georgios Kyriacos Panagiotou (Yog per familiari e amici stretti) che scompare per lasciare spazio a George Michael, il rap degli esordi (primi bianchi in assoluto) agli albori degli anni ’80 che lascia spazio a un pop-soul dal successo immediato e travolgente, prima nel Regno Unito e poi in Europa e nel mondo (i primi occidentali ad intraprendere un tour in Cina). Singoli che schizzano immediatamente al primo posto in classifica, i capelli scuri che si allungano e si schiariscono per conquistare il pubblico giovanile di Top of the Pops, orecchini a cerchio, due album, la ballad ‘Careless Whisper’ e il celebre video girato a Miami, il Live Aid a Wembley. Nel 1986, a 23 anni tutte le tappe già bruciate. L’incapacità di accontentarsi, la decisione sofferta ma inevitabile di sciogliere il duo – con un concerto finale ancora a Wembley davanti a una distesa oceanica di fans devastati – e proseguire da solo, alzando l’asticella in maniera vertiginosa. Un azzardo premiato ben oltre qualsiasi aspettativa e previsione, perché il combinato disposto tra un album perfetto, che unisce tutte le sue influenze e ispirazioni e omaggia tutti i suoi riferimenti, e spiazzanti crossover tra generi e stili, e l’immagine iconica di rockstar con occhiali a specchio, giubbotto e guanti di pelle e jeans Levi’s attillati, lo proiettano immediatamente in un piedistallo riservato a mostri sacri come Michael Jackson, Madonna, Prince. Il sogno del ragazzino paffutello e con gli occhiali che componeva musica nella sua cameretta, ma un incubo per l’eccessiva, insostenibile pressione, e ancora una volta per la prevalenza dell’aspetto fisico e del look (siamo del resto negli anni Ottanta) rispetto al talento e alle altre capacità mostrate in abbondanza.

Un nuovo, bellissimo album, ‘Listen without prejudice vol. 1’, la scelta di non comparire nella copertina e nei video, contestatissima dalla Sony, la sua casa discografica. Il video ‘Freedom ‘90’ diretto da David Fincher, uno dei più belli della storia della musica, dove compaiono le top model immortalate da Peter Lindbergh per il numero di gennaio dell’edizione inglese di Vogue, Tatjana Patiz (recentemente scomparsa), Linda Evangelista, Naomi Campbell, Christy Turlington e Cindy Crawford, il giubbotto di pelle in fiamme e il jukebox di ‘Faith’ che esplode, la voglia di essere se stesso senza sovrastrutture. E sullo sfondo l’omosessualità e la vita affettiva da non sacrificare sull’altare dell’idolatria femminile (lady Diana diventò una sua grande amica). Omosessualità che porta finalmente felicità e non tormento dopo l’incontro a Rio de Janeiro con Anselmo Feleppa, il grande amore finalmente arrivato, ma presto spazzato via dall’aids. La migliore performance della sua carriera, ancora e sempre a Wembley nel concerto tributo a Freddy Mercury organizzato dai Queen, l’interpretazione straordinaria di ‘Somebody to love’ arriva proprio nel pieno di quella tempesta emotiva e di quel lutto in inesorabile arrivo, vissuto come una terribile ingiustizia. Un dolore mai superato, esasperato anche dal lungo contenzioso legale per la rottura del contratto (conclusosi con una sconfitta), elaborato nell’album successivo ‘Older’, annunciato da una dedica dolcissima e struggente (‘Jesus to a child’) che non poteva essere dichiarata pubblicamente. Poteva e doveva essere l’inizio di una rinascita, ma la morte per cancro della madre Lesley, in pochi mesi, rappresenta un nuovo viaggio nel buio dell’anima, da stemperare apparentemente con vari tipi di droghe e sesso occasionale. Ci vorrà la trappola tesa da un poliziotto per portare a un tardivo coming out e a una nuova stagione segnata da una apparente serenità, nuovi stimoli, nuovi album in cui il suo talento come interprete e songwriter raffinato emergerà con indiscutibile spessore, il tour celebrativo dei 25 anni di carriera solista che lo riporterà nella sua dimensione ideale, sul palco, l’unica nella quale riesce a trovare la sua dimensione centrata, nuovi crolli e nuovi tentativi di risalita. I prestigiosi duetti, le memorabili cover, e la vita privata in caduta libera. Il ‘Symphonica tour’ organizzato in fretta per cercare di risollevare la sua immagine appannata dall’ennesimo episodio vampirizzato dai media, l’orchestra al seguito oscurata dalle sfumature della sua voce e della sua personalità. Una polmonite che lo ha accompagnato per settimane a un passo dalla morte in un ospedale a Vienna, a vedere quella “white light” che spesso viene raccontata dalle persone che escono dal coma, poi cantata in mondovisione nella cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Londra il 12 agosto 2012 diretta da Danny Boyle, regista del cult ‘Trainspotting’ e altro suo celebre fan. L’ennesima resurrezione, purtroppo soltanto una breve, illusoria parentesi, fino alla notizia battuta dalle agenzie di stampa nella tarda serata del 25 dicembre 2016. Il pellegrinaggio composto a Londra per deporre fiori e pensieri davanti a cancelli delle sue residenze, le tante iniziative di solidarietà rese note dai beneficiari per rendere visibile un altro aspetto tenuto gelosamente nascosto, e per questo ancora più apprezzabile. La tristezza e il rimpianto, che aumenteranno nel prossimo mese di maggio, quando termineranno le votazioni online e si esprimerà il comitato ristretto della Fondazione chiamato a ufficializzare i nuovi ingressi nella Hall of Fame.

You may also like

Leave a Comment

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.