Il gioco del jazz di Giovanni Sollima e Ernst Reijseger

by Antonio Tuzza

Martedì 18 febbraio scorso, settimo appuntamento della rassegna Adelante, organizzata dalla associazione “Nel gioco del Jazz” del direttore artistico Roberto Ottaviano, noto sassofonista barese. Ed anche stavolta è lui ad aprire e presentare la serata.

Davanti ad un folto pubblico, si siede sugli scalini di accesso frontale al palcoscenico e introduce i violoncellisti Giovanni Sollima e Ernest Reijseger. Essi provengono da background musicali solo apparentemente distanti, più classico quello di Sollima, più jazzistico e sperimentale quello di Reijseger; infatti, sarà proprio questo concerto a mostrare quanto i rispettivi territori siano inaspettatamente sovrapposti; ognuno esplora gli stilemi dell’altro sin dal loro primo incontro nel 2008 in occasione della rassegna “I Suoni delle Dolomiti”, lo spettacolare festival di musica in quota sulla catena montuosa del Trentino.

Il concerto si apre con suoni in lontananza, indistinti e flebili, che provengono dal fondo della sala. I musicisti sono tra il pubblico e si comprende subito che non si tratta di un concerto come un altro. Entrambi, camminando con il violoncello sollevato da terra, si lanciano subito nella improvvisazione estemporanea, nella ricerca di suoni “altri” rispetto a quelli prodotti dalle articolazioni previste dai manuali classici di conservatorio. Si siedono tra il pubblico, gli strumenti gemono, Reijseger usa il suo strumento come fosse una scopa, fa strisciare il puntale sul pavimento della platea: anche quello è comunque un suono prodotto dal violoncello pur non avendo una vera e propria letteratura di riferimento.

Raggiunto il palco, i due musicisti mettono da subito in gioco lo scambio comunicativo tra i due strumenti, si incrociano, l’uno si arricchisce con l’altro in un crescendo musicale continuo. La magia timbrica e dinamica dei violoncelli è esplorata completamente, al posto delle mani sembra di vedere due farfalle che volano intorno alla tastiera e all’archetto.

Reijseger, questa sera tocca a lui la parte del più trasgressivo, ha un rapporto molto fisico con il suo strumento. Egli lo posa sulla gamba destra, e lo usa esattamente come una chitarra: dallo strumming al fingerpicking fino al rasgueado; e arriva così finalmente la ulteriore conferma della affinità elettiva tra il violoncello e la chitarra, strumento che Reijseger deve amare molto, così come era già capitato di riscontrare in occasione del concerto di Paolo Angeli per la stessa rassegna; in quel caso era proprio lo strumento inventato e utilizzato dal musicista sardo la perfetta sintesi tra chitarra e violoncello. Questi strumenti cugini si scambiano spesso, ed è evidente che Reijseger sia anche un dotato chitarrista, infatti adotta sul suo strumento tecniche di esecuzione proprie e fraseggi tipici della chitarra.

I due musicisti scherzano musicalmente tra di loro seguendo una partitura parallela e sovrapposta di ironici incroci e scambi personali; ora Sollima allunga il suo archetto sul cello di Reijseger, ora glielo “suona” in testa, un continu e intelligente dialogo che smonta, a rimandi, ogni tentazione di confinare la musica colta (si legga pure “classica”) nei territori polverosi di due secoli fa. Se nella prima metà del novecento, l’avanguardia (e in parte il jazz) aveva mandato in frantumi la tradizione musicale moderna mitteleuropea, ora la stessa avanguardia, ingessatasi a sua volta nel corso dei decenni, viene messa in discussione e mandata in crisi da questa tipologia di performance che trova nel gioco performativo un vero e proprio canale di comunicazione preferenziale dei suoi contenuti più essenziali quanto di spessore.

E il gioco coinvolge anche il pubblico. Sollima insegna agli spettatori una breve melodia (neanche troppo semplice) che chiede di ripetere insieme ai due violoncelli che suonano. Va così in frantumi anche la quarta parete musico-teatrale che separa l’artista che si esibisce dallo spettatore che assiste.

Va ricordato che Sollima nel 2013 è stato maestro concertatore della Notte della Taranta, e ce lo ricorda una pizzica indiavolata suonata insieme a Reijseger che si occupa della parte ritmica usando il suo strumento, altrettando indiavolatamente, come un tamburo. Sollima applica alla punta dell’archetto una piccola percussione fatta semplicemente di due bicchieri di plastica attaccati con del nastro adesivo e contenenti qualcosa come riso o altro il cui suono assomiglia ad quello di uno shaker. Così facendo, Reijseger e Sollima portano i loro celli a suonare fino al limite fisico dello strumeto e fino alle loro imprevedibili “intimità”: Sollima arriva a far cantare con l’archetto persino il puntale del violoncello. Si tratta di un momento magico; Sollima e Reijseger sono due fuori classe, la cui tecnica e espressività rendono godibile e consonante anche la dissonanza. Si assiste al gioco di due esseri umani che semplicemente si divertono come bambini grandi ed esperti; due rari musicisti che sanno e amano comunicare con il pubblico che esplode alla fine della pizzica.

Ma ci sono anche momenti raffinatissimi, delicatissimi, così evocativi che anche il silenzio è più silenzioso del solito, grazie al pianissimo di alcuni passaggi, in cui Reijseger vocalizza linee melodiche che si inseriscono nella trama dei cellos.

Reijseger e Sollima sdrammatizzano il loro strumento e tutta la tradizione classica che lo sottende, portandolo sul serissimo terreno della pratica ludica della musica; arrivano a confrontarsi persino con il flamenco fusion nello stile del compianto chitarrista (ecco, ancora la chitarra!) Paco De Lucia.

I due parlano pochissimo tra un brano e l’altro ma non ce n’è bisogno, parlano già con la musica e con il loro particolare approccio sperimentale e ironico. Il concerto si chiude con una divertente gara di velocità esecutiva e un parossistico crescendo finale che manda in delirio il pubblico.

Ci si rende conto di aver assistito ad uno show di altissimo livello, alla possibilità di riscatto di certa musica e di certi strumenti… strumenti appunto che, come tali, obbediscono alla filosofia e alle pratiche eseutive di chi li imbraccia e che diventano attuali o obsoleti a seconda della umana capacità comunicativa ed espressiva. Un concerto da rivedere cento volte, fatto di poesia, gioco, intelligenza e prospettiva.

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