Il poeta, il cantante, il critico. Eugenio Montale “uomo musico”

by Enrico Ciccarelli

L’interessante articolo per Bonculture a firma di Fabrizio Simone sulle recensioni giordaniane scritte da Eugenio Montale per il Corriere di Informazione può ingenerare qualche fraintendimento nella ricostruzione dell’attività del poeta. È vero che Eugenio Montale considerò per tutta la vita il giornalismo come “Il secondo mestiere”, ma la sua attività di critico musicale fu tutto tranne che un amaro cedere al detto “carmina non dant panem”.

La musica e il melodramma, da lui amato con particolare intensità, furono infatti, a detta dello stesso poeta, il primum movens, il veicolo originario della sua vocazione poetica. La silloge “Accordi“, giustamente dimenticata e sua prima pubblicazione poetica, si proponeva di dar voce con sette liriche a sette diversi strumenti, ossia di riprodurne in forma letteraria la timbrica, il suono, il carattere. Ma al tempo di Ossi di Seppia il poeta decise di “salvarne” soltanto una, la splendida Corno inglese, che qui riproduco perché chiunque condivida Montale risparmia un po’ di pene in Purgatorio:

ll vento che stasera suona attento –

ricorda un forte scotere di lame –

gli strumenti dei fitti alberi e spazza

l’orizzonte di rame

dove strisce di luce si protendono

come aquiloni al cielo che rimbomba

(Nuvole in viaggio, chiari

reami di lassù! D’alti Eldoradi

malchiuse porte!)

e il mare che scaglia a scaglia,

livido, muta colore

lancia a terra una tromba

di schiume intorte;

il vento che nasce e muore

nell’ora che lenta s’annera

suonasse te pure stasera

scordato strumento,

cuore.

Quest’intima musicalità, ricercata quasi ossessivamente per tutto l’arco della produzione poetica montaliana, fu sempre vissuta non solo come qualità intrinseca del verso, comune a tanti, a cominciare da quel Gabriele D’Annunzio che per Montale fu sempre genio da ammirare (si pensi a quel capolavoro assoluto che è “La pioggia nel pineto”, con i suoi versi che scrosciano e cantano) e antipodo da esecrare. Il rapporto fra poesia e musica era piuttosto un dialogo fra dirimpettai, un’attività fra soci naturali. L’esito più esplicito di questa concezione è un’altra poesia, inizialmente intitolata Musica sognata, e oggi nota nel corpus montaliano come Minstrels, ad attestarne e rivendicarne la parentela con l’omonimo brano di Claude Debussy. Eccone il testo:

Ritornello, rimbalzi

tra le vetrate d’afa dell’estate.

Acre groppo di note soffocate,

riso che non esplode

ma trapunge le ore vuote

e lo suonano tre avanzi di baccanale

vestiti di ritagli di giornali,

con istrumenti mai veduti,

simili a strani imbuti

che si gonfiano a volte e poi s’afflosciano.

Musica senza rumore

che nasce dalle strade,

s’innalza a stento e ricade,

e si colora di tinte

ora scarlatte ora biade,

e inumidisce gli occhi, così che il mondo

si vede come socchiudendo gli occhi

nuotar nel biondo.

Scatta ripiomba sfuma,

poi riappare

soffocata e lontana: si consuma.

Non s’ode quasi, si respira.

Bruci

tu pure tra le lastre dell’estate,

cuore che ti smarrisci! Ed ora incauto

provi le ignote note sul tuo flauto.

Ascoltare il brano permette agevolmente di comprendere come si tratti di una sua autentica parafrasi, di una “versione in versi” che conserva sia la giocosa e dissacrante ironia che la delicata intensità del brano musicale. Al Grande Innovatore Debussy risponde il Grande Innovatore Montale.

Tuttavia la passione per la musica e quella per il melodramma non si limitarono ad essere un generico nume tutelare per il poeta: fino al 1923 Montale vagheggiò una carriera da cantante lirico, soprattutto grazie alla spinta del maestro Ernesto Sivori, che lo vedeva come un buon baritono (laddove Montale si considerava un basso) e insisteva molto perché esordisse in teatro, Un’ipotesi che Montale considerava terrorizzante, al punto da immaginarsi schiantato dal crepacuore al momento dell’esordio. La morte di Sivori fece vincere la ritrosia anziché il talento, e ci regalò, anziché un cantante probabilmente mediocre, uno fra i più grandi poeti italiani di ogni tempo. Lo stesso Montale parla della morte di Sivori come alibi per l’abbandono delle velleità liriche.

Penso che questi brevi cenni siano sufficienti a spiegare come le recensioni di Montale non siano quelle di un letterato che deve tirare quattro paghe per il lesso: al contrario, sono l’espressione più competente ed autentica di una vocazione che non considerò mai condizionanti le separazioni fra l’una e l’altra forma d’arte. Come scrisse Carlo Emilio Gadda in un articolo apparso sul Tempo nel 1943 (Montale, o l’uomo mùsico): la voce, nota o parola, musica o poesia, è lo strumento principe dell’uomo pensante e senziente. La transizione dal canto alla lirica si manifesta in lui come un passaggio spontaneo: evoluzione fisiologica, felice ed ingenua metamorfosi della urgenza espressiva

 Anche nelle valutazioni piuttosto scontate sull’opera giordaniana (mi pare difficile che qualcuno dubiti che lo Chénier e la Fedora siano le opere più riuscite del grande compositore foggiano) vibra questo afflato autentico, questa idea sommamente montaliana che poesia e musica e dramma e storia (e vita?) possano essere liberamente frammiste, come in una alchemica trasmutazione, in una Pietra Filosofale dell’Arte.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.