L’aquila alla fine del mondo

by Enrico Ciccarelli

Lo spettacolo Recital Cantango, ottimamente recensito su queste pagine da Fabrizio Simone e appuntamento d’esordio dell’XI edizione di Musica Civica, non è stata soltanto l’occasione per farsi incantare dalla grande voce di Fabio Armiliato, dalle evoluzioni coreutiche dei Los Guardiola, dalla grazia della Alma de Tango Chiara Giudice, dal malinconico timbro del bandoneon, dagli efficaci arrangiamenti di Fabrizio Mocata.

È stata anche l’occasione per ricordare e ripercorrere una storia, nota quasi soltanto agli addetti ai lavori, che ha le caratteristiche policrome e picaresche di una vasta epopea: quella di Raffaele Attilio Amedeo Schipa, presto conosciuto come ‘u titu, il piccolino in dialetto salentino, e quindi, per sempre, Tito Schipa.

Come sanno i melomani, stiamo parlando di uno dei più grandi tenori d’ogni tempo, forse il più grande interprete in assoluto di Nemorino nel donizettiano Elisir d’amore. Ma i suoi trionfi dall’uno all’altro continente in quasi sessant’anni di straordinaria carriera artistica, sono quasi scoloriti e bigi di fronte alla sua portentosa ed errabonda vita, per descrivere la quale servirebbe la penna celestiale di Alessandro Baricco e del suo Novecento.

Nato a Lecce sul finire del 1888 (ma all’anagrafe fu registrato il 2 gennaio del 1889), Tito Schipa nacque in una famiglia modesta di origine albanese (il cognome Schipa viene dal termine arbëreshë che significa aquila). Le sue straordinarie doti canore, che coniugavano una potenza stentorea e una grande dolcezza timbrica attirarono subito l’attenzione di diversi talent-scout. La necessità di uscire dall’ambito della provincia, unitamente –pare- a una certa pericolosa esuberanza adolescenziale, indussero i suoi primi maestri a mandarlo a Milano, a perfezionarsi con Emilio Piccoli.

Nel 1914 lo consacra a Napoli una leggendaria Tosca. Subito dopo comincia a manifestarsi la sua indole errabonda e poliglotta (parlò fluentemente quattro lingue e cantò in quattordici, più –come amava ripetere- il napoletano), che lo porta in Spagna, e da lì, a bordo dei piroscafi, ancora più lontano. Sfidando gli u-boot, che in quel periodo rappresentavano l’incubo dei trasporti oceanici, giungeva in Argentina.

Il paese della Montagna d’Argento, come immaginavano i conquistadores, era allora come oggi una terra immensa (l’ottavo Stato al mondo per estensione territoriale), pressoché deserta. L’immigrazione, fortemente incoraggiata dalle leggi introdotte dal presidente Roca aveva fra fine del XIX e inizio del XX secolo, attirato milioni di europei, soprattutto italiani, in una nazione giovane dallo sviluppo impetuoso, povera d’arte e di letteratura, nella quale i gauchos, mandriani delle pampas, costituivano la variante australe dei cow-boys.

Ai loro costumi rudi e mascolini, all’epopea del loro Martin Fierro, faceva cornice e colonna sonora una melodia e una danza sensuale e violenta: il tango. Ballata nelle milongas, metà bettole e metà balere, questa musica da prateria o da barrios non tardò ad attirare l’attenzione dei musicofili argentini, frequentatori dell’immenso Teatro Colon di Buenos Aires, dove Enrico Caruso si era esibito innanzi a quattromila spettatori per più spettacoli, lasciando un ricordo indelebile, che proprio Tito Schipa contribuì a rinverdire.

E mentre deliziava i melomani della Croce del Sud, il tenore leccese si pose al lavoro insieme ad altri per costruire, attraverso la musica dei gauchos, l’identità di questo Paese giovane e travolgente. L’elegiaco violino, lo struggente bandoneon, lo scuotente pianoforte, non possono bastare. Servono le parole, serve il tango-canciòn. Nell’attendere a questa fatica, Schipa incontra un giovanotto dotato, chiamato el morocho per i suoi capelli bruni. Si chiama Carlos (Carlito) Gardél, e diventerà una leggenda, anche per la sua morte precose in un incidente aereo.

Ancora nel 1953 Indro Montanelli, in un memorabile reportage da Buenos Aires per il Corriere della Sera titolava Si chiama tango l’oppio degli argentini un articolo in cui descriveva l’irruzione via radio della voce di Gardel in una posada bonaerense, che portò gli avventori ad un immediato rapimento estatico.

Così questo artista di molteplici identità, in un rapporto costantemente mosso ed in bilico fra nazionalità ed etnia, contribuì a dare a una terra di migranti il profilo di un’identità. Ma naturalmente non poteva restare all’ombra delle Ande, nella gigantesca megalopoli sul Rio de la Plata. Chiamava il gigante nordamericano, anch’esso orfano dell’angelo Caruso. Schipa obbedisce al richiamo, trionfando a Chicago nel ruolo del duca di Mantova.

Gli anni americani sono ricchi di esperienza e di gloria, oltre che di cattive compagnie. Potrebbe essere Tito Schipa, il tenore dalla faccia imbiancata che canta Vesti la giubba! negli Intoccabili di Brian De Palma. Di sicuro, nei roaring twenties Tito ha qualche eccesso di confidenza con i ragazzi di Alfonso Capone. Nel frattempo, però, diventa anche un divo del grande schermo, nonché un apprezzatissimo interprete del repertorio canzonettistico spagnolo e napoletano.

Poi il ritorno in Italia, dove il suo amico e conterraneo Achille Starace è diventato il potente segretario del Partito Nazionale Fascista. Sempre poco sorvegliato nelle sue dedizioni, Schipa si trova a suo agio in camicia nera, al punto da guadagnarsi nell’immediato dopoguerra la qualifica di indesiderato negli Stati Uniti e l’ostracismo artistico in Italia.

Passerà presto, per fortuna. Ma Schipa non fa in tempo ad essere ospite di Mario Riva nel Musichiere che riparte per una nuova controversa avventura, questa volta Oltrecortina. La presidenza della giuria del Festival della Gioventù a Mosca nel 1957 gli viene conferita fra grandi onori, il che comporta l’apertura di un fascicolo del Sifar (il servizio segreto italiano) su di lui. Traversie economiche e vicende poco chiare lo portano a tornare negli Usa, a New York, dove dirigerà fino alla morte (avvenuta nel 1965) una prestigiosa Accademia di canto.

Un lungo viaggio, con molte terre toccate, che amò molto e dalle quali fu amato, ma di cui non fu mai del tutto cittadino. La patria di Schipa, quella vera, non era di questa terra. Ma ci piace pensare che, avesse voluto eleggerne una, avrebbe scelto quella sterminata landa di cui scrisse l’autentico inno: l’Argentina e il suo tango. Papa Bergoglio ha scherzato sul Pontefice che siamo andati a prendere “alla fine del mondo”. Ma è fin lì che dal tacco d’Italia si è spinta l’aquila dalla voce portentosa.

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