Perché Let’s get Lost ci fa ancora sognare a 32 anni di distanza dalla sua uscita

by Gianfranco Maselli

Raccontare quello spazio fra sogno e realtà, dove morte e miracoli, razionalità e istinto della vita di un uomo si confondono in un solo chiaroscuro non è certo privilegio concesso a qualunque narratore.

Forse “Let’s get Lost” ci fa ancora sognare così tanto a distanza di 32 anni perchè, già nella sua sequenze d’apertura, ci sembra chiaro che riuscirà, magicamente, a fotografare impeccabilmente proprio questo spazio.

Sui sedili posteriori di quella sfrecciante cabriolet decappottabile, dove due giovani donne abbracciano quel poco che resta di Chet Baker, quel chiaroscuro smette infatti di essere una rarità e, davanti allo spettatore, si fa uomo in carne ed ossa.

Senza nulla togliere all’occhio di Bruce Weber il merito, ovviamente, è tutto del soggetto e della bellezza che, quasi con noncuranza, questo sa indossare sin dalla giovane età, una bellezza così distante dalla vanità e dall’orgoglio mortali da renderlo un Dio greco che si approccia alle cose mortali con una leggerezza divina, quasi ci giocasse.

Ne siamo così sedotti da arrivare a pensare che per fare di qualsiasi storytelling strappalacrime qualcosa di indimenticabile ci vorrebbe sempre uno come Chet, il migliore, una stella lontanissima che sa brillare più di tutti gli altri e che, similmente, è capace di covare nella sua luce una tristezza così grande che nessun altro cuore sarebbe capace di sopportare tutta insieme.

È proprio in quella luce torbida che, nel 1988, Bruce Weber ritrova quello spazio così pericolosamente agognato e riesce a racchiuderlo in “Let’s Get Lost”, quasi si trattasse di una casuale magia nera capace di imprimere vite maledette su una pellicola, per farla trasudare di una tristezza infinita in modo perpetuo negli anni a venire.

Alla sua terza esperienza cinematografica, inconsapevolmente, il superbo bianco e nero di Weber cattura in un documentario quello che si sarebbe rivelato l’ultimo anno di musica e vita di Chet Baker, ripercorrendo tutte le strade percorse verso la gloria, le sue deviazioni pericolose, i suoi tornanti più selvaggi.

Quello che si dipana dinanzi a noi in due ore di girato è un sentiero tortuoso cominciato negli anni ’50, un percorso lungo il quale Baker ha perennemente guidato un’auto senza freni scontrandosi violentemente e in modo totalizzante con la vita, una corsa estrema ma leggiadra, quasi incosciente, attraverso il Jazz, il cinema, la California, l’Europa, l’Italia, i denti rotti, gli arresti, i mesi in carcere, la morte.

Non c’è traccia del pensiero, del calcolo, della sperimentazione che tanto vantano i suoi colleghi fra gli anni ’50 e ’60. Se i più non riescono a distinguerlo da Miles Davis è probabile, come indica lo stesso Baker, che non si siano accorti della grossa differenza.

Non c’è nulla a guidare Chet se non un’istintività unica, un fare animale che il musicista applica alla naturalezza con cui è capace di scrivere musica tanto superba quanto malinconica, alla velocità con cui si innamora delle sue tre mogli, alla leggerezza con cui le ripudia e abbandona i figli, alla continuità con cui l’unica cosa che rincorre nei vicoli più oscuri e squattrinati della sua esistenza resta, sempre, l’eroina.

Weber si ritrova a realizzare un gioiello unico che odora già di culto sin dalla sua prima proiezione, una fotografia del tramonto di un’epoca intera e di una delle più grandi leggende bianche del jazz.

Di entrambi rimangono un ammasso di rughe profonde come i solchi arati in un campo, corpi sempre più esili, milioni di sigarette, un mare di cenere, vent’anni di eroina consumata in silenzio contro corpi invecchiati male, come quello di Chet Baker, il dio greco che davanti alla telecamera sembra non smettere mai di posare neanche per un attimo, come nella quotidianità.

Dentro quella carcassa consumata, la soavità della voce e l’incoscienza sembrano rimanere illese dal tempo fino all’ultimo respiro, fino a quel volo mortale dal balcone del Prins Hendrik Hotel di Amsterdam, pochi giorni dopo il temine delle riprese del documentario.

Quell’involucro di carne ed ossa che tramonta oltre le colline californiane, al di là della spiagge su cui danzano giovani ebbri di musica e stupefacenti, dietro le palme disseminate lungo gli ampi boulevard californiani, sembra per un attimo voler trascinare con sé anche quella voce soave, le note della sua tromba, la sacralità impressa in centinaia di registrazioni ma, come sappiamo bene, non potrebbe esserci tentativo più vano.

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