The New Abnormal, il nuovo album degli Strokes

by Gianfranco Maselli

Sette anni di attesa per un disco sono davvero tanti, diciamocelo. In sette anni cambiano le scene musicali, si evolvono i suoni e il songwriting generale, spesso, approda a soluzioni che, qualche anno prima, per una buona fetta del pubblico sarebbero state incomprensibili. Com’è possibile che una band che trascina uno zaino di esperienza ventennale sulle proprie spalle, come gli Strokes, sembra esserselo dimenticato?

Forse quelle sono le spalle di uno studente che, giunto al quinto anno di scuola, accusa svogliatezza. Tutto sembra essere diventato così meccanico, così preconfezionato che riesce quasi semplice scrivere un quinto disco ma non altrettanto lavorarci su per pubblicarlo, soprattutto se alla radice c’è un processo di songwriting incapace di emozionare.

Non sono necessari molti ascolti di The New Abnormal per svestire delle solite magliette malconce e dei jeans trucidi Julian Casablancas e soci e far loro indossare, almeno nel nostro immaginario, i panni degli studenti che ai colloqui genitori-insegnati potrebbero fare molto di più ma non si impegnano. Qualcuno ha fatto i compiti con molto ritardo e, come se non bastasse, li ha consegnati senza infamia né troppe lodi.

Agli artisti non resta che scriverle in fretta, quelle canzoni su cui lavorano da anni. Il rischio è che poi possano svanire e, piuttosto che non essere più ricordate, finiscano per suonare vecchie e difficili da modernizzare. In casi come questo, tuttavia, la vecchia e sempre valida soluzione resta il mixaggio.

Infatti il mix di The New Abnormal denota certamente un ottimo lavoro nel rimaneggiamento delle tracce, soprattutto delle chitarre che, dall’acidità con cui siamo stati abituati a conoscere gli Strokes, si amalgamano assieme al basso in una inedita pasta magmatica appena tiepida, una miscela ossimorica che sarebbe potuta risultare certamente più calda ma che riesce a fare ugualmente il suo dovere in brani che sembrano una novità sonora, come The “Adults are Talking”, “Eternal Summer” e “At the Door”.

Proprio il primo dei tre pezzi ci regala, in apertura del disco, una sperimentazione interessante che, in un abbraccio inesplorato per la band Newyorkese, costringe cassa, rullante e soprattutto charleston aperto della batteria a sorridere inaspettatamente ai Radiohead di Idioteque.

Sebbene gli echi di Kid A, a cui gli Strokes sembrano attingere per attimo, si circoscrivano unicamente a questo pezzo, gli strizzamenti d’occhio alla psichedelia passata e presente sono invece abbondantemente disseminati nel chorus delle chitarre di una buona metà del disco. Impastandosi ai sintetizzatori, usati decisamente in modo più massiccio rispetto al passato, il prodotto finale si slancia verso un sinuoso e riverberato ipnotismo che odora vagamente di Tame Impala, MGMT e Beach House.

Ce n’è voluto di tempo. Meglio tardi che mai, o forse meglio mai, considerando quanto siano già vecchie quelle sonorità che gli Strokes sembrano aver scoperto soltanto in “Comedown Machine” e voler applicare in modo invariato anche a pezzi di questo disco come “Selfess”, “Brooklyn Bridge to Chorus” e “Why are Sundays so depressing”, brani che probabilmente, in sette lunghi anni, si sono persi per strada più volte a causa della loro fragilità.

L’unico che, forse, sembra aver fatto i compiti in modo lodevole sembra Julian Casablancas. Il frontman consolida il suo stile inscrivendolo in uno spazio terroso che non potrebbe esser diventato più nitido. Quel appezzamento vocale, piazzato fra un tono megafonato e raschiato diventato iconico e un dolcissimo falsetto sempre evocativo, non è mai stato così facile da valicare da una parte all’altra come in questo disco.

Casablancas è capace di caricarsi sulle spalle arrangiamenti punk rock pericolosamente pericolanti come platani invecchiati male, per tirarli magicamente su e trasformarli in massicci e ringiovaniti arbusti. È il caso Bad Decision, a mio parere l’unico vero capolavoro di questo disco, un brano che riutilizza al meglio le lezioni di Iggy Pop e Billy Idol, una perfomance vocale intrisa di post punk fin sopra i capelli. Un degno esempio di quanto il punk, se suonato e vissuto nel modo più vero, possa essere ancora tremendamente attuale.

Malgrado la potenza di Casablancas e la passione che coinvolge gli ultimi due brani del disco, “Not The Same Anymore” e “Ode the Mets”, che sembrano sciogliersi in una struggente tenerezza, “The New Abnormal” non trascina, non riesce né a insinuarsi nel canticchiare quotidiano dell’ascoltatore se non in isolate occasioni né a destare curiosità nella sua accennata sperimentazione. Forse, in questo limbo di debolezze e di anni che scorrono inesorabili, gli Strokes non sono mai stati così a nudo.

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