Davide Enia e L’Abisso, la “nominazione” dei fatti di Lampedusa porta il corpo nella frontiera del mare

by Antonella Soccio

“Il primo corpo lo riuscimmo a prendere grazie alla cintura che indossava, la mano strinse la cinta e il corpo del ragazzo fu in barca. Dalle altre imbarcazioni giunte in soccorso urlavano: “Lasciate stare i morti, pensate ai vivi”. Noi puntammo le persone vestite, tirandole su per i pantaloni, per le magliette, per la cintura. Un corpo dietro l’altro. Stringere il pantalone, afferrare il tessuto, non c’era altra possibilità. Avevamo recuperato dieci uomini, vivi. Muovevamo la barca piano, c’era il concreto rischio di investire con lo scafo qualche sopravvissuto. Ma in mare sembravano tutti morti, tutti quanti. Invece, proprio nell’ultimo giro compiuto, prima di trasbordare i ragazzi recuperati nella motovedetta della Guardia Costiera, con la coda dell’occhio vidi muovere la mano a una ragazza che galleggiava. Prenderla fu difficilissimo. Era tutta ricoperta di nafta. Scivolava via di continuo. Riuscimmo però a tirarla su. Mi tolsi la canottiera per asciugarla, per pulirle via il gasolio dalle braccia e dalle ascelle, per coprirla. La ragazza vomitò nafta, tossì, vomitò ancora. Ma era viva”.

Davide Enia – Appunti per un naufragio

Sessanta persone disperse e 16 salvate in un naufragio al largo di Sfax, in Tunisia. Tre corpi sono stati recuperati. La nave Mare Jonio sequestrata a Lampedusa. Il flusso di notizie, le ultimissime queste, ci lascia inebetiti, indifferenti.

Nello spettacolo L’Abisso di Davide Enia, ieri al Teatro Garibaldi di Lucera per la magnifica stagione PrimaVera al Garibaldi diretta da Fabrizio Gifuni, si ritorna subito in connessione col proprio corpo che vibra e con la propria umanità. Con l’istinto di sopravvivenza e col coraggio di salvare altre vite nostre simili, che ci rende essere umani.

Si vede e si sente, negli occhi e nell’intimo, la tragedia del Mar Mediterraneo, un camposanto moderno delle migrazioni di uomini, donne e bambini.

L’attore e regista insieme al musicista Giulio Barocchieri evoca suoni e litanie degli aedi e della terra antica siciliana, in un cunto di pescatori, sommozzatori, cittadini che diventa immediatamente linguaggio del corpo, includendo tutti i codici biopolitici. Tutti a teatro, con Davide Enia, sono a Lampedusa. Vedono Lampedusa e gli sbarchi. Senza nessuna spettacolarizzazione o retorica. Il pubblico entra nei personaggi di Appunti per un Naufragio (Sellerio Editore, 2017), sente le emozioni di Paola e Melo, del sommozzatore, di Vincenzo il guardiano del cimitero di Lampedusa, del padre muto, dello zio Beppe con i suoi cerchi che si chiudono, delle donne violentate in Libia e nel deserto, i corpi che aspettano le onde.

Lampedusa destabilizza i propri ospiti, in un senso di straniamento. “La voce onnipresente del vento. La luce colpisce da ogni dove. E davanti agli occhi, sempre il mare, eterna corona di gioia e spine che ogni cosa circonda. È un’isola in cui gli elementi ti piombano addosso senza che nulla glielo impedisca. Non esistono ripari. Si è trafitti dall’ambiente, attraversati dalla luce e dal vento. Nessuna difesa è possibile”.

C’è chi piange a dirotto durante lo spettacolo, chi resta freddato, come in guerra, la metafora scelta dall’artista per descrivere la frontiera della Guardia Costiera tra le onde. Non si può restare indifferenti, non è tv, non è una foto simbolo, non è neppure semplice teatro di narrazione. Tale è il lavoro sulla parola, tali sono le scosse che Enia e Barocchieri portano sul palco col corpo narrativo, in un ritmo impressionante, da condurre il pubblico nell’abisso del mare e dell’anima, fino all’emersione finale, col mito di Europa.

Davide Enia nel foyer

Tanti hanno atteso Enia al termine dello spettacolo insieme a Fabrizio Gifuni nel foyer. Sarà al Teatro Greco di Siracusa a giugno e a Lampedusa in ottobre per ricordare il naufragio di quel 3 ottobre 2013.

Noi di Bonculture lo abbiamo intervistato.

Enia, come ci si sente dopo uno spettacolo come il suo, così fisico e totalizzante?

Dopo ogni spettacolo appena finisco, in qualche modo prendo atto del fatto che ne sono sopravvissuto, ringrazio le persone che mi hanno aiutato a venirne fuori, che sono i nomi, tutti i nominati corrispondono a persone in carne ed ossa, viventi o che non ci sono più. Ringrazio le musiche di Giulietto che mi tirano fuori dal gorgo durante il cunto e cerco di decomprimere: la particolarità di questo lavoro attoriale è che è molto performativo, mi ri-metto nella condizione emotiva di chi sta nominando per la prima volta le cose e i fatti. Provo un senso di sopravvivenza.

Il suo corpo nello spettacolo anticipa ed è un tutt’uno con le emozioni, le elenca, in un racconto che ingloba tutti i codici della conoscenza, come è riuscito a mettere insieme parole e gesti?

Noi abbiamo lavorato tantissimo in prova, il tempo di gestione del materiale è stato giusto, lo abbiamo incubato in quasi un anno. Proviamo, cantiamo, valutiamo. Il testo cambia le musiche di Giulio e le musiche cambiano il testo, cerchiamo di prendere coscienza dei codici che utilizziamo e di dargli una giustificazione scenica. Il grande pericolo, che avevamo sempre chiaro, è quello di spettacolarizzare la tragedia e di strumentalizzare i corpi. E abbiamo cercato di lavorare in assoluta sottrazione e con rigore per evitare proprio questo, appoggiandoci alla modalità di nominazione dei fatti e delle cose della nostra terra, la Sicilia, col canto dei pescatori, col cunto, che viene fatto in maniera molto eretica, perché viene piegato dentro la musica, slabbrato. Abbiamo ponderato ogni sillaba, ogni azione, ogni movimento, ogni nota.

Perché la similitudine della guerra per i sommozzatori in mare?

Avendo studiato quello che sta accadendo, per capire quel che accade in mare, abbiamo un vocabolario ed è quello della guerra. Tutte le immagini, le poesie, i ricordi, le memorie, i racconti della guerra, quelle parole sono quelle che spiegano quel che accade, come la sindrome da stress traumatico degli stessi interpreti, che sono da una parte all’altra della frontiera.

È da un anno in tour con lo spettacolo, è cambiato qualcosa nel pubblico in questi mesi di profonda trasformazione del sentire degli italiani sull’accoglienza?

Sono due ordini separati. Non è cambiata la cialtroneria con la quale ormai da 25 anni si raccontano i fatti, non è cambiata l’ignoranza di base di un contesto che è ignorato da persone che continuano a nominarlo senza esserci mai stati o aver visto uno sbarco. Continua ad esserci un uso vergognoso del vocabolario al limite del criminale. Quello che accade nello spettacolo è per me sorprendente, si ricrea una sorta di logica comunitaria nel pubblico che è messo di fronte ad un altro punto di vista di quello che accade e che vive i diversi binari del racconto, che hanno a che fare con mettersi di fronte all’abisso, cercando di fronteggiarlo. È qualcosa che ci appartiene e che abbiamo nella famiglia, davanti a noi e nel nostro presente. L’unico consiglio che mi sento di dare a chiunque è provare a nominare il trauma, ogni cosa che ci ha fatto male bisogna sforzarci di nominarla, per creare una distanza tra noi e loro.

Che emozione le ha restituito il pubblico di Lucera?

A parte i cellulari, che sono una delle iatture del nostro tempo- è assolutamente lecito che il pubblico possa amare oppure no uno spettacolo, quello che è inammissibile è il sabotaggio dello spettacolo e il cellulare sono il sabotaggio del lavoro e della messa in scena-, il pubblico è stato assolutamente accorto, attento. Mi hanno aspettato fuori una quarantina di persone, per stringere una mano, ricevere un abbraccio. Si crea una comunità, poi ognuno reagisce come è giusto che sia. Qualcuno ha bisogno di prendersi dell’aria, di stare in silenzio, di scaricare. Solitamente ho notato che le persone che riescono a piangere durante lo spettacolo sono quelle che poi rimangono fuori ad attendermi, quelle che trattengono dentro, hanno bisogno di stare da sole.

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