I quindici anni degli Apocrifi in Capitanata: il loro fiore nel deserto, oggi, è meno solo

by Felice Sblendorio

Quando si elencano i nomi di chi ha resistito e resiste alle intemperie sconfortanti del Sud e della Capitanata, il nome della Bottega degli Apocrifi viene in mente subito. Dal 2004 abita il Teatro Comunale “Lucio Dalla” di Manfredonia con una scelta politica: “coltivare il deserto”. Dopo quindici anni di lavoro al Sud, diciotto anni dalla nascita a Bologna della compagnia, e in attesa dell’edizione estiva di “Mille di queste notti in riva al lago” in programma dal 30 luglio al 2 agosto all’ex Idroscalo del Lago di Varano (info: www.bottegadegliapocrifi.it), la drammaturga Stefania Marrone e il regista Cosimo Severo raccontano a bonculture il loro fiore nel deserto, amato e coltivato, che resiste ancora al freddo e solitario inverno del nostro scontento.

“Mille di queste notti” al lago di Varano per un teatro che diventa sempre di più un rito collettivo. È una necessità contaminarsi?

Stefania Marrone: Shakespeare ai Contadini è un po’ l’idea che il teatro possa arrivare dappertutto e che possa parlare a tutti, ritrovando la sua natura come specchio delle comunità. Alla fine è come tornare alle origini perché quello che succede nei tempi di crisi, e questo credo che possa essere considerato come tale, è recuperare il senso collettivo delle parole. Il teatro nasce come un rito, un esperimento di comunità. Questo progetto, oggi, ci aiuta a riproporlo come tale. Percorrere strade diverse ci ha dato l’opportunità di aprirci ancora di più al territorio, infatti questo progetto è realizzato assieme all’Hub rurale “Vazapp”. Abbiamo messo assieme due mondi completamente distanti per poi scoprire che avevano e hanno dei punti di contatto notevoli: il tempo giusto per le cose da fare e la volontà di costruire assieme. Questo lavoro comune nasce da più bisogni. Alla fine, però, il nostro bisogno, che nel tempo è diventato più collettivo, largo, con il tempo ha preso sempre più le sembianze di un desiderio.

Tra la società dei desideri e quella attuale dei bisogni c’è, al centro, un territorio da abitare e animare. Come avete abitato il teatro di questo territorio?

Cosimo Severo: Siamo partiti dalla necessità che il teatro da soli non si può fare. Il teatro vero non si può fare in solitudine perché hai la necessità di incontrare gli altri. Nella maggior parte dei casi il miglior teatro è quello che incontra gli altri ascoltandoli e non solo parlando: l’attore che parla ma che ha le orecchie tappate è un attore che non riesce a sentire neanche quello che sta dicendo lui. L’attore che parla e ascolta quello che succede attorno cambia anche quello che dice, ma non perché si adatta, ma perché lo interpreta. Il teatro, nella sostanza, dovrebbe fare questo: avere la capacità di ascoltare e un cervello capace di assimilare tutto quello che ascolta. Un teatrante che decide di vivere in un posto come questo ha già messo in conto che deve attrezzarsi per un sentire più profondo e attento. Solamente ascoltando entri nel fondo della comunità. Per entrare in quel fondo, però, devi ascoltare le ferite che si scoprono, quelle che fanno male. La difficoltà principale, eliminando invidie e diffidenze, è la fiducia nell’ascolto.

Dall’ascolto arrivano le risposte necessarie, però molto spesso sono le domande a salvarci. Quale domanda ha dato forza alla vostra permanenza a Manfredonia?

SM: “Che cosa ci inventiamo domani?”, “Hai fatto tu la spesa?”, “Ci diamo un limite di resistenza, cioè qual è il limite della nostra resistenza?”. Una delle più importanti, però, è: “quanti siamo?”. Noi siamo partiti in tre e, sicuramente, la domanda vitale è stata quella dei ragazzi che anno dopo anno ci chiedono: “quando ricomincia il teatro diffuso?”. Questa è la domanda più significativa che ha ci ha tenuto assieme e che  lega quanti siamo e cosa ci inventiamo domani. Insomma: sono strettamente collegate perché ti accorgi che è nato un desiderio attorno a questo spazio e i ragazzi te lo vengono a manifestare. Le domande ti aiutano ad andare avanti, soprattutto quelle degli altri.

La resistenza è un termine a voi caro: quanto si riesce a resistere quando si lavora costantemente in un tempo di guerra, in una trincea fisica e immaginaria?

CS: In questo momento noi non siamo in guerra contro le cattive amministrazioni. Forse siamo in guerra contro le leggi sbagliate. Nell’ultimo periodo la nostra guerra è quella di tenere qui due lavoratori stranieri perché ce li vogliono togliere. Vogliono che prendano in mano una lettera che dice che non possono stare qui e poi farli volatizzare. Io non so se devo resistere per questo. So che Mamadou e Bakary sono due pezzi di costruzione dell’ascolto e del nostro teatro. Io non mi diverto a fare questo lavoro per resistere. La ragione che ci tiene qui sono gli adolescenti e le persone che frequentano le nostre attività: nulla più mi tiene legato artisticamente qui. Stare in un piccolo posto del Sud ti cambia la scelta produttiva, la stessa operazione d’ascolto, ma la difficoltà di fare impresa resta globale e unica. La nostra fatica è il quotidiano, la fatica comune di chi oggi vuole fare impresa.

Ora è una resistenza comune, ma è innegabile il vostro intento di “stare” su questo territorio per coltivare politicamente il deserto. Dal deserto è nato qualcosa, oppure il fiore è ancora solo nello spazio indefinito?

SM: Sicuramente molto è cambiato. Questo spazio, che noi abbiamo cominciato ad abitare nel 2009, non è più solamente il nostro spazio perché in dieci anni è diventata la casa di tutti: un teatro abitato per davvero, al di là dalle produzioni e dall’attività più legata allo spazio artistico. Dall’altro lato c’è un dato molto importante per la provincia di Foggia. La nostra compagnia è l’unica impresa teatrale in questo momento che opera in regime d’impresa e questo è un dolore immenso perché di solitudine si muore. Si muore soprattutto quando alcune battaglie sono dei singoli e non dell’intera comunità. Dal 2015 “Bottega degli Apocrifi” ha i requisiti per fare domanda di sostegno ministeriale, ma questo sostegno per una questione particolare legata ad alcuni punteggi non viene concesso. La domanda giusta da parte di questo territorio dovrebbe essere la seguente: le tasse di questa provincia, che dovrebbero ritornare anche attraverso il sostegno all’attività culturale del territorio, quali altre realtà italiane sostengono? Questa è una domanda centrale perché i fiori nel deserto sono bellissimi ma non è questo il paesaggio arido che la Capitanata meriterebbe. Attorno a noi non c’è un lavoro politico di bellezza che coinvolga le imprese. Il fatto che fare impresa qui è difficile non è una risposta che ci può mettere in pace.

CS: In questo posto del Sud quello che deve fare la politica è dire: qui si può fare. Si può fare impresa culturale, si può abitare, si può vivere tranquillamente senza alcuna minaccia. Qui, invece, sembra che tutto non si possa fare. Per far sì che qui non si venga più romanticamente a coltivare il deserto bisogna creare queste benedette condizioni. Queste condizioni, però, non possono essere battaglie di alcuni soggetti ma deve essere un lavoro comune che metta tutti assieme, non solo la politica. Dalla cultura al sociale arrivando alla scuola: le insegnanti che si sporcano le mani sono diverse, perché crescono alunni diversi. Bisogna collettivamente sporcarsi le mani.

La vostra storia ha incrociato, poco dopo il 2008, una stagione politica aperta alle possibilità: era la Puglia di Vendola, quella regione attraente e culturalmente illuminata della “primavera pugliese”. Cosa ricordate di quel periodo?

SM: Quando siamo arrivati c’era quella sensazione che Cosimo evocava poco fa: qui si potevano davvero fare determinate cose. Con Vendola è nato il progetto dei “Teatri Abitati” che, per il Teatro Lucio Dalla di Manfredonia, è stato un vero e proprio miracolo. Con una lungimiranza comunale, che decise di far gestire questo luogo per dieci anni ad un soggetto privato, partecipammo a quel primo bando. Nessuno pensava che una compagnia teatrale potesse gestire uno spazio pubblico, così quando l’agenzia di servizi candidata a questo bando sbagliò un documento di ammissibilità, come un sassolino che blocca l’ingranaggio delle cose che vanno come devono andare, la Bottega vinse prima quel bando e poi colse l’occasione di partecipare al bando regionale dei “Teatri Abitati”. Con l’amministrazione Vendola il lavoro artistico sui territori fu considerato come una buona parte del tutto della ricerca artistica teatrale delle compagnie. Poi, tutto quello che è accaduto in questi dieci anni, dai “Teatri Abitati” al ruolo del nostro teatro come capofila dei “TRAC – Teatri di Residenza Artistica Contemporanea”, è accaduto grazie a quello slancio “possibile” e generativo di fare.

Forse, però, da quella primavera identitaria e centrale sui temi della cultura ci si aspettava di più. Perché molte realtà sono sfuggite al tempo e non sono rimaste o cresciute?

CS: Tutto dipende da chi ha preso quel treno. Chi ha avuto uno sguardo personale ha utilizzato quelle risorse nello stretto limite necessario che quella risorsa ti chiedeva. Molti hanno risposto solamente ad una singola domanda e si sono adagiati sulla comodità limitata di quei fondi, di quelle risorse. Così, chi ha sfruttato il momento politico è scomparso. Il fallimento di quel tempo, forse, è stato dettato da una mancanza di ampio respiro oltre il visibile di quella stagione politica e culturale.

In Capitanata, di quel tempo e di altri, manca una narrazione collettiva. Perché non ci si riesce a raccontare?

CS: La narrazione collettiva è difficilissima perché non è in grado di cogliere nelle differenze i dati comuni. Dai dati comuni, unici e allargati, riesci a cucire una narrazione collettiva. La specificità è diversa, ma gli sguardi e le difficoltà ci rendono uguali e in quell’uguale va raccontata la vasta gamma delle sfumature. Il secondo tema è quello della voglia di parlarne. Anche le fratture che ci sono su questo territorio sembrano siano dei fantasmi. Parlare ti fa coscienza. Forse manca davvero qualcuno che vuole ascoltare una narrazione comune dei fatti che viviamo. Ecco perché costruire un terreno fertile è utile in tutti gli spazi della vita pubblica; perché si mettono in circolo attenzioni indispensabili.

SM: Secondo me alla fine c’è un vincolo costituzionale: drammaturgicamente una narrazione collettiva funziona quando c’è un conflitto vero. In questo territorio si ha paura del conflitto perché un conflitto comporta sollevare il velo su alcune cose che non vorremmo osservare. È un esercizio a cui non siamo ancora preparati.

Non è tempo di conflitti, dunque. Allora questo clima bellico da farsa tragicomica che cos’è?

SM: È il frutto di un sacco di chiacchiere.

L’inflazione della buona e cattiva parola?

SM: Quando abbiamo lavorato al laboratorio “Uccelli” abbiamo notato che molte cose non si potevano più dire perché erano retoriche, buoniste. Con l’alibi della retorica si uccidono le parole, i pensieri. Io, poi, per esperienza, quando sono in crisi riparto dalla mia Treccani. Cerco retorica e trovo: arte concreta che ha delle finalità pratiche. Le chiacchiere, oggi, sono talmente tante che si mangiano il senso delle parole. Il senso viene fagocitato dal suono delle parole.  

Se il suono delle parole è diventato ingannevole, restano gli sguardi. Voi avete incrociato molti sguardi, soprattutto dei più giovani. Cosa vi rimane quando vanno via?

CS: Il Festival “Con gli Occhi Aperti” è arrivato alla sua quindicesima edizione. Di tutti gli adolescenti incontrati in questi quindici anni resta la responsabilità dei consigli, delle parole e l’unicità dei loro sguardi. La maggior parte sono nella nostra memoria, a partire dai loro nomi. Non è solo uno sguardo, ma tanti, tantissimi. Il nostro lavoro è stato quello di far incrociare questi occhi e di mettere a confronto due o più sguardi sul mondo. Abbiamo cercato di costruire una comunità a partire da loro ma poi, per fortuna, noi facciamo solo teatro: fuori questa energia speriamo resista e viva.

I vostri sguardi, invece, come sono cambiati dopo questi lunghi anni di attività?

SM: Il teatro mantiene giovani. Noi siamo cresciuti in consapevolezza. A livello di compagnia il nostro più grande cambiamento è che, dopo molto tempo, abbiamo imparato a dare un nome alle cose.

CS: Il mio sguardo è sicuramente invecchiato. Per altri anni proverò a fare una cosa a cui tengo, cioè continuare a seminare. Quel desiderio non è tramontato con l’avanzare dell’età: seminare, allargando e lasciando agli altri la possibilità di fare, è una nostra missione. Alla fine resta la volontà di costruire qualcosa dove qualcuno potrà stare e condividere un sogno. Quando questo sogno diventerà più concreto, allora in quel momento sarò una persona più giovane. Questo nostro sogno oggi riflette anche alcune giovani professionalità che sono accanto a noi nel lavoro quotidiano. La nostra idea è quella di costruire una compagnia che abbia la possibilità di essere viva anche senza di noi. Questo è il mio desiderio: seminare qualcosa che duri oltre le mie, oltre le nostre forze.

Fin quando ci sarà qualcuno disposto ad ascoltare, il teatro sarà vivo. Come si vive di ascolto in un tempo che ci costringe ad isolarci nelle nostre rancorose solitudini?

SM: L’ascolto se ci pensiamo è al principio de “Le mille e una notte”. Shahrazad rimane viva perché ascolta e racconta, e proprio i suoi racconti le garantiscono sopravvivenza. Poi c’è Boccaccio che dice: se io ascolto so di essere vivo. Il teatro, grazie all’ascolto, è questa garanzia di essere vivi, nonostante il tempo che muta e cambia. Se ci fosse un sinonimo più corretto della parola teatro, senza dubbio, sarebbe la parola vita.

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