La riflessione sull’Italia e sul tempo che resta in “Un borghese piccolo piccolo” di Fabrizio Coniglio

by Antonella Soccio

La regia perfetta e a tratti allucinata di Fabrizio Coniglio accompagna il pubblico teatrale da due anni alla scoperta del classico di Vincenzo Cerami “Un borghese piccolo piccolo”, interpretato da Massimo Dapporto nel ruolo di Giovanni Vivaldi e da un gruppo di attori molto in parte, come Susanna Marcomeni, Roberto D’Alessandro, Matteo Francomano e Federico Rubino, per le scene di Gaspare De Pascali, i costumi di Sandra Cardini, il disegno luci di Valerio Peroni e le musiche originali di Nicola Piovani.

La forza dello spettacolo è nell’allestimento dei tre ambienti, le tre scene, tutte contemporaneamente sul palco e illuminate come un eterno flashback, quasi ad indicare l’immobilità della società italiana: il capanno, il luogo caro dell’altrove, della serenità e del buon ritiro, che diverrà anche il luogo dell’ombra e dell’assassinio; la casa piccolo borghese con la cucina come unico crocevia di relazioni e di umori e l’ufficio ministeriale del superiore massone, porto delle nebbie della produttività e del disincanto politico, civile e sociale del Paese.

Del romanzo si sa tutto: il libro di Cerami è un fermo immagine lungo ormai 45 anni della società italiana, dove la piccola borghesia impiegatizia servile ed inutile si perpetua con ogni mezzo, facendo lievi passi in avanti nell’ascensore sociale, grazie alla corruzione, ai segreti e agli scambi e il privato cittadino dinanzi ad uno Stato lento e paternalista risponde con la reificazione del sogno di farsi giustizia da sé.

Al Teatro Giordano a Foggia, in una città scossa dalla Quarta Mafia e attraversata da potenti relazioni massoniche nei pubblici poteri e tra i colletti bianchi, il riferimento alla massoneria, con la scena dell’iniziazione e delle prove, ha come raggelato il pubblico in platea e sui palchi. La selezione e la cooptazione dell’amico e del fratello di affiliazione sono pratiche troppo ancora praticate per poterne ridere.

Il capoufficio, interpretato da un ottimo Roberto D’Alessandro, sembra un De Michelis senza alcuna qualità, pronto a chiedere voti in una campagna elettorale permanente.

Imponente e generoso il lavoro di Massimo Dapporto, che incarna alla perfezione nel corpo e nella voce il personaggio del padre, ossessionato dal successo e dalla stabilità del figlio. Il monologo finale, in cui Vivaldi confessa l’omicidio e il suo sadismo contro l’assassinio di Mario, è da incorniciare. Il grande attore italiano riesce in quel momento più che un tutto lo spettacolo, accanto alla moglie ormai muta e inebetita dal dolore del lutto, a toccare ogni gamma dei sentimenti umani grazie ad un insight strepitoso: pietas, vanità, rabbia, bestialità, delirio, follia, odio, compassione, amore paterno, innocenza. È l’anamnesi della vendetta e dell’assenza di etica pubblica, che si autoassolvono.

Lo stesso climax, dalla tristezza alla disperazione dell’urlo al vuoto, chiude lo spettacolo. Vivaldi pensionato riflette sugli anni che gli restano da vivere. 15, 10 anni. Come si fa a vivere 10 anni ancora così? In quel così strascicato e infine urlato, il regista ha racchiuso tutto la tragedia di un uomo rimasto solo dinanzi alla sua piccolezza umana e ai suoi sogni piccolo borghesi infranti.  

Alla fine dello spettacolo si ha come la sensazione che dalla metà degli Anni Settanta, gli anni di Piombo del post boom, ad oggi l’Italia sia regredita, invecchiata senza speranza. Con i suoi giovani morti. In Un borghese piccolo piccolo entrambi i giovani, il raccomandato e il ladro-assassino, periscono. Quando il secondo spara e si rifugia in mezzo al pubblico, si prova un sottile piacere. È come se ogni spettatore avesse ucciso personalmente quel futuro dipendente ministeriale, inetto e incapace, con la prova del concorso già in tasca grazie ai massoni. Ma torturare l’uccisore nel capanno non basta.  

È l’Italia ad uscir morta dopo lo spettacolo, in una immensa riflessione sul tempo. Il messaggio familistico coinvolge e incolpa ciascuno di noi, anche quando un tema musicale grandioso come quello di Piovani ci riporta, estaticamente e in maniera trascendente in più punti del dramma, al dubbio verso il nostro io piccolo piccolo, avvizzito dal compromesso e dall’egoismo.  L’altro tema musicale simbolico è Io che amo solo te di Sergio Endrigo, interpretato nel ballo dei due coniugi come una summa della autodistruzione morale della cellula familiare italiana.

“Farai strada, quant’è vero Iddio… Comincerai proprio da dove sono arrivato io, dopo trent’anni di servizio… e tu hai soltanto vent’anni… Un giovane in gamba per davvero pensa al suo avvenire, a nient’altro che a quello e lascia che gli altri si impicchino”.

C’è gente che ama mille cose e si perde per le strade del mondo

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.