American Gods, il viaggio psichedelico delle antiche divinità nel mondo contemporaneo

by Gabriella Longo

Mettiamo che Odino sia sbarcato col suo seguito di corvi direttamente nel XXI secolo, e che ora bazzichi sulla terra sotto copertura facendosi chiamare col funesto appellativo di Wednesday, che giri l’America in una cadillac nera e che abbia tutti i vizi e i capricci delle divinità di pagana memoria.

Mettiamo anche, che Wednesday/Odino, sia sceso dal Valhalla per cercare qualcuno che ancora lo veneri come si fa con un dio, e non solo in quanto affascinante cimelio norreno da rispolverare all’occorrenza. Mettiamo poi, che questa storia della memoria, del credere fortemente in qualcosa o qualcuno, è necessaria per rafforzarne il potere: avere fede o non avercela, nel caso di un culto, decreta che questo viva o scompaia per sempre.

A Wednesday servono dunque due cose: proseliti che ne alimentino l’esistenza ma anche vecchi divini colleghi che possano aiutarlo ad armarsi contro gli dei di nuova generazione, quali quelli della Tecnologia, dei Media e del Denaro che si sono progressivamente sostituiti alla vecchia guardia. Tutto questo, e non solo, è American Gods, primo romanzo di successo di Neil Gaiman (uscito nel 2001) e poi serie tv controversa, che dal 2017, conta all’attivo due stagioni (più una terza in arrivo).

Adattare il cult di Gaiman per qualunque tipo di schermo era un affare rischioso, perché il romanzo è come una matrioska narrativa; ma il lavoro compiuto dagli showrunner originali Bryan Fuller (quello di Hannibal), e Michael Green (il co-sceneggiatore del nuovo Blade Runner) è stato un miracolo visivo, un perfetto accordo fra ricchezza stilistica (c’è un po’ di tutto, dallo splatter al fiabesco) e impatto narrativo.

Sulla questione della fedeltà all’ “ur-American Gods”: il fatto che la storia avesse preso un’altra piega, era chiaro sin da quando Shadow Moon (Ricky Whittle), il prescelto da Wednesday (interpretato magistralmente dal villain dei villain, Ian McShane) per diventare suo fedele, esce di prigione dopo aver scontato una pena per rapina (e siamo solo a metà della prima stagione), e si ritrova, a seguito della morte della moglie Laura, completamente solo al mondo. Ma al giorno d’oggi (e a meno che non s’incorra nel casus belli scatenato con Game of Thrones) diamo per assodato ciò che disse una volta Bazin a proposito della trasposizione, che in parole povere suona un po’ come: è (e deve essere) un’altra cosa (a patto che le cose funzionino).

La prova è comunque superata a pieni voti, lo ha dimostrato il successo di pubblico e critica riscosso da quella prima indimenticabile stagione in cui Fuller e Green danno corpo al misticismo e all’occulto, rispolverando vecchie storie, tipo che le monete dei leprecauni irlandesi fanno realmente resuscitare i morti.

Il viaggio di Wednesday e Shadow Moon è psichedelico, forte, introspettivo. Grazie a loro (ri)scoprivamo innanzi tutto, l’esistenza di antiche divinità che hanno avuto la fortuna di sopravvivere all’oblio, riciclandosi nel mondo contemporaneo; come Bilquis (Yetide Badaki), ad esempio, la vorace semi-bibilica dea dell’amore, ora prostituta d’alto bordo che divora i suoi amanti con la vagina dopo avergli estorto una confessione di fede.

In secondo luogo, ritrovavamo ancora intatta, la profondità dell’argomento che era propria del romanzo: delineare la sottile trasformazione dei credenti in follower, era una scusa per parlare di tolleranza, di diversità, di razzismo (perfetta poi la scelta del cast che è un grande melting pot) e porsi domande di grande spessore come – a mo’ della storia dell’uovo e della gallina- se siano nati prima gli dei o prima gli esseri umani. Fatto sta, che fra gli uni e gli altri c’è davvero una differenza sottilissima, specie se ci si sofferma sul fatto che stiamo parlando di divinità finite a condurre una guerra senza quartiere sul suolo americano. Chi sono i vari Odino, Anansi, Bilquis, Saba, Černobog, Thot e tutti gli altri della mitologia se non degli immigrati, approdati su una terra di tutti e di nessuno, la patria per eccellenza del sogno e del disincanto?

Gli dei arrivarono in America quando gli umani ebbero bisogno di loro, per poi finire con l’essere dimenticati e rimpiazzati come si fa con una gomma forata. Come in tutte le storie dell’american dream, qualcuno ce la fa, e questo era il caso del dio Vulcano, il quale aveva continuato la sua incessante attività di forgiatura, producendo proiettili per un’America che alla guerra crede evidentemente ancora moltissimo. Sintomatico e forse cruciale perno di tutta la storia, fu quel sesto episodio della prima stagione, dal nicciano titolo “L’assassinio degli dei”, in cui una delle tante reincarnazioni di Gesù Cristo, muore colpito da una pallottola destinata ai messicani che tentavano di passare il confine. Scoprivamo, così, – con un impatto emotivo non indifferente – che le divinità periscono anche per opera di quelle stesse forze che ne sfoggiano i simboli, da mani che stringono rosari e allo stesso tempo brandiscono fucili e pistole, e che sotto l’egida di un franchise così nero ci restano secchi proprio tutti quanti.

Possiamo quindi consolarci con questo, e perdonare il fatto che la seconda stagione (uscita nel marzo di quest’anno e disponibile su Amazon Prime Video) non sia stata del tutto all’altezza della prima, laddove all’artisticità e all’audacia della sperimentazione, nonché alla regia visionaria, si sostituisce una complessiva linearità, a tratti da cinecomics. Quello che sembrava un armonioso complesso fatto e finito, diventa così un cantiere a cielo aperto, funestato da alterne vicende, dopo la sostituzione di Fuller e Green con Jesse Alexander, e alcuni importanti addii ad attori che avevano regalato delle performance uniche. È questo il caso di Media, la poliforme dea dell’analogico (quella seducente entità elettrica che passava dai panni Marilyn Monroe, a quelli di David Bowie, Lucille Ball e Judy Garland) interpretata nella prima stagione da Gillian Anderson e poi sostituita da Kahyun Kim, la giovane asiatica che (giustamente), rappresenta ora i New Media, sottolineando con questo il significativo passaggio all’era del digitale.

La seconda stagione, se pur con i suoi difetti, ha poi decisamente spostato l’attenzione su Shadow Moon, quell’uomo “satellite” che una volta uscito di prigione s’era trovato con un pugno di mosche in mano, ma del quale si è sempre più interessati a scoprire la provenienza di quella sua luce (glie lo diceva sua madre quando era un ragazzo) che, quasi in ossimorica contrapposizione col suo nome, è stata il motivo della scelta di Odino. E’ nella televisione come questa che si deve ancora sperare, un po’ come si fa con gli dei, affinché al vasto pubblico arrivino i sempre più necessari messaggi fuori dal coro, quelli di non adeguamento alla frequente politica del whitewhashing. Se questo diventasse la norma, allora la cultura pop sarebbe invasa soltanto da divinità bianche, maschili e muscolose, rischio che, a dire il vero, è proprio dietro l’angolo – come d’altronde ha sottolineato anche lo stesso Gaiman, il quale ha voluto fortemente che Shadow Moon fosse nella serie un uomo di colore. Perché, come sa chi ha letto il libro e come può facilmente intuire chi ha guardato soltanto la serie, nella terra in cui gli dei sono meticci, immigrati, clandestini, il figlio di Odino ha la pelle scura.

You may also like

Non è consentito copiare i contenuti di questa pagina.