Unorthodox, la catarsi ultraortodossa diventata un fenomeno televisivo

by Nicola Signorile

Uno dei fenomeni del momento. Unorthodox è una miniserie esplosa letteralmente tra le mani di Netflix, come  è spesso avvenuto negli ultimi anni. Produzioni minori, per budget e nomi coinvolti, senza le stimmate dello show mainstream e poco supportate dal marketing, che, per ragioni spesso imperscrutabili, raggiungono una visibilità globale, surclassando produzioni più quotate e sponsorizzate.

È successo per esempio, all’inizio, con Stranger Things o con La casa di Carta; sta succedendo con la miniserie in 4 puntate, disponibile su Netflix dal 26 marzo, creata da Anna Winger e Alexa Karolinski, basata sull’autobiografia di Deborah Feldman, Ex ortodossa. Il rifiuto scandaloso delle mie radici chassidiche (Unorthodox: The Scandalous Rejection of My Hasidic Roots).

Ha destato grande curiosità la storia di Esther “Esty” Shapiro, 19enne ebrea ultra-ortodossa della comunità chassidica di Williamsburg, New York. Una enclave integralista nel bel mezzo della Grande Mela incardinata su leggi secolari e regole rigidissime che mortificano prima di tutto le donne, in ogni aspetto della loro esistenza. Niente studio o lavoro, niente trucco o capelli in bella mostra, abiti modesti. Braccia e gambe coperte, la testa rasata nascosta da una parrucca o da un copricapo. Divieto assoluto di utilizzare internet, di cantare o studiare musica, persino di leggere la Torah. Esty, come sua madre, sua zia e sua nonna avrebbero un solo compito: concepire figli e essere buone mogli ubbidienti.

Sembrano pratiche risalenti a epoche dimenticate o a inquietanti visioni distopiche, invece Esty è una donna del Ventunesimo secolo sposata da un anno, infelicemente, con Yanky (Amit Rahav), studioso del talmud, dopo un matrimonio combinato dalle rispettive famiglie. Decide di fuggire a Berlino alla ricerca di un’identità fino ad allora solo accennata, in un tentativo coraggioso di uscire dalla sua (un)comfort zone per avere la possibilità di esprimere la propria individualità emotiva e creativa.

Con gli occhi calamitanti dell’israeliana Shira Haas, l’espressiva protagonista di Unorthodox, scopriamo questo mondo sconosciuto, chiuso in se stesso, asfissiante ma al contempo affascinante, a patto di osservarlo da molto lontano. In un montaggio alternato lo show si muove tra la nuova vita di Esty nella Berlino multietnica e accogliente di oggi e quella precedente rigidamente scandita a Williamsburg.

Contesti in realtà abbastanza omogenei. Ricchi e moderni, costellati di arte di strada e locali alla moda, un orgasmo per ogni instagrammer che si rispetti. Contesti che stridono terribilmente con la quotidianità della giovane sposa in cui si fa sempre più opprimente la pressione della comunità sulla coppia che non riesce ad avere figli, aumentano le intromissioni della madre di Yanky e i litigi tra i coniugi sono una costante. La vita può e deve essere altro: Esty sceglie di darci un taglio e andare lontano,  proprio nella città dove vive sua madre (Alex Reid), “espulsa” dalla comunità anni prima.

Aveva avvertito il futuro marito, “io sono diversa”, quel non sentirsi del tutto a fuoco che la allontana dalle altre donne della famiglia ma che la rende speciale, anche agli occhi spauriti di Yanky. Il suo è un rifiuto delle privazioni a cui viene sottoposta; delle intromissioni nel rapporto con l’uomo con il quale vorrebbe, nonostante tutto, essere felice; delle aspirazioni musicali represse: le lezioni di pianoforte sono l’unica trasgressione concessa, poi negata. Figuriamoci cantare: una donna che canta non rientra nei canoni di modestia e umiltà richiesti.

Forte avversione nei confronti della comunità e dei suoi uomini è il primo sentimento risultante dalla visione in ogni spettatore di media civilizzazione. Ciononostante non si viene respinti da Unorthodox, ma accolti e invogliati a proseguire, parteggiando per Esty senza se e senza ma, anche se sin dalle prime battute si può immaginare come andrà a finire.

La regia di Maria Schrader è scrupolosa nel soffermarsi su particolari eloquenti del microcosmo Williamsburg, su gesti e rituali inusuali a occhi profani. Toccare lo stipite delle porte, baciarsi le mani ogni volta che si cambia stanza, rivestire la cucina di stagnola per evitare che il cibo venga contaminato, in prossimità della Pasqua, la rasatura e il rito purificatorio pre-nuziale in acqua fino al matrimonio ricostruito nei minimi dettagli delle usanze chassidiche: elementi che sono la forza trainante dello show, grazie a un lavoro pregevole su ambienti e costumi (attenzione alle scenografie e all’abito da sposa così come ai bizzarri copricapo maschili) e alla scelta di girare in yiddish.

Decisamente più consuete le sequenze berlinesi di Unorthodox, inventate rispetto alla biografia di Deborah Feldman, che presentano una capitale tedesca come un Eden multicolore in cui Esty scopre l’amicizia, i jeans, il sesso – quello fatto per piacere e non per procreare -, la tecnologia, sperimenta l’autodeterminazione e intravede la potenza della diversità, connaturata a un gruppo di orchestrali multilingue, che diverrà in breve sua nuova famiglia. Si legge tutta la meraviglia della continua scoperta negli occhioni di Shira Haas (“come guadagnarsi da vivere a Berlino?” è la prima ricerca di Esty su Internet, il luogo che darebbe risposta a ogni domanda), una Alice nel paese delle meraviglie vogliosa di vita e di rimettersi al passo con il mondo.

Tanto è sorprendente e interessante il passato, quanto può risultare meccanico e un po’ telefonato il presente berlinese. Non ci mette molto a trovare un posto la protagonista, adottata da ragazzi cosmopoliti ed empatici: il suo bagno nel lago coi vestiti addosso però resta nella memoria, segnando la rinascita di una donna, un nuovo venire al mondo, dopo l’immersione nella vasca per concedersi pulita al consorte. Un processo di affermazione di sé non raccontato in modo banale, ricco di inciampi e dubbi: non ci si può sbarazzare in poco tempo di retaggi inculcati così a fondo. Esty non intende recidere i legami col passato, né rinnegare la sua fede, piuttosto seguire la sua strada senza subire imposizioni.

Tentare la strada della musica esibendosi in un’audizione o (ri)costruire un rapporto con una madre della quale conosce solo ciò che, di male, le è stato raccontato dalla nonna (Dina Doron), la figura di riferimento per la protagonista. Le leggi della comunità sono più forti dei sentimenti a  Williamsburg e colpisce duro il momento in cui Esty cerca conforto al telefono nella voce dell’anziana, la quale sceglie invece di interrompere la telefonata.

Sceneggiatura ben calibrata sulle quattro fasi della storia della giovane fuggiasca inseguita (“un ebreo, anche se ha trasgredito, resta un ebreo: non possiamo lasciare che la nostra gente si smarrisca”, sentenzia il rabbino) dall’improbabile coppia inviata in Germania per riportarla a casa, formata da Yanki e da suo cugino Moishe (Jeff Wilbusch), un ortodosso molto meno ortodosso rispetto agli altri di Unorthodox, che gioca con le pistole e non disegna alcool e gioco d’azzardo. Molto meno riuscita, solo abbozzata, la storyline dedicata ai due alla ricerca della Esty perduta; grottescamente divertente il momento in cui  Yanky scopre il magico mondo dello smartphone, “posso chiedere quello che voglio? Trova Esty!”. Molto intenso però il confronto tra marito e moglie in una camera d’albergo, in cui si gioca finalmente a carte scoperte.

Viene spesso citato il dramma dell’Olocausto, alla base della scelta di creare comunità chiuse e severe nella nuova Terra promessa, l’America. Gli ebrei chassidici erano stati decimati durante la Seconda Guerra Mondiale, i superstiti scelsero di proteggersi e rinchiudersi nei propri dogmi, qualcosa di lontanissimo dall’ebraismo sottile e progressista amato nel cinema dei Coen, di Woody Allen, Billy Wilder o Mel Brooks.

La scelta di Berlino non è casuale, “vuoi crescere qui tuo figlio?”, gli chiede Moishe indicando i luoghi in cui gli ebrei venivano rastrellati per poi essere uccisi o deportati. E la stessa ragazza si dice convinta di dover mettere al mondo figli “per ripopolare i sei milioni” di ebrei sterminati dai nazisti. Unorthodox è il racconto di una catarsi storica e personale che lascia nello spettatore soprattutto una voglia matta di saperne di più su quel pazzo mondo arcaico di Williamsburg, più che di sapere come proseguirà la vita berlinese di Esty; un cantico della rinascita femminile che non esisterebbe senza la sua protagonista, la 24enne Shira Haas, una epifania di talento e espressività che sicuramente rivedremo presto con il suo sguardo illuminante e la presenza scenica di una Kristen Stewart che sa anche recitare. Ha già preso parte a film come La signora dello zoo di Varsavia con Jessica Chastain e interpretava l’adolescente Rushama nella serie Shtisel, sulla quale tornerò a breve.

Questo è un progetto tutto al femminile che vede alla regia (dopo due lungometraggi) la tedesca Maria Schrader, attrice molto nota in patria per i tanti importanti ruoli al cinema: Rosenstrasse di Margarethe Von Trotta, In Darkness di Agnieszka Holland, ma soprattutto Aimée & Jaguar che nel 1999 le valse l’Orso d’Argento al festival di Berlino come miglior attrice ex-aequo con la co-protagonista Juliane Köhler; in tv, è stata la zia della spia Martin Rauch in Deutschland 1983 (di cui Bonculture vi ha già parlato) e una dei protagonisti di Fortitude.

Tornando a Shira Haas, la giovane rivelazione rappresenta il trait-d’union con un’altra finestra aperta su una impenetrabile comunità religiosa ebrea. Si tratta di Shtisel, è una serie israeliana ambientata in una famiglia di haredim, gli ultraortodossi che a Gerusalemme vivono nei quartieri di Mea Shearim e Goula; due stagioni prodotte dal 2013 e trasmesse da una tv israeliana, poi acquistate da Netflix che produrrà in proprio il terzo capitolo.

Se avrete ancora voglia di approfondire e apprezzare shtreimel (l’ingombrante cappello di pelo indossato dagli uomini) e payot (i lunghi boccoli), è disponibile nello sterminato catalogo Netflix anche il documentario americano One of Us, realizzato da Heidi Ewing e Rachel Grady nel 2017 che racconta le storie di uomini e donne fuggiti dalla comunità degli ultraortodossi hassidim di Brooklyn.

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