Jezabel di Irène Némirovsky, il trionfo insolente della vera giovinezza e della dissolutezza senza redenzione

by Paola Manno

Pubblicato nel 1936 da Albin Michel, Jezabel è un celebre, potente romanzo di Irène Némirovsky, quello che probabilmente descrive in maniera più profonda ed evidente il difficile rapporto dell’autrice con la figura materna. Il legame con sua madre, che le incise profonde ferite durante l’infanzia, è infatti uno dei temi ricorrenti nella poetica della scrittrice; presente in tutte le sue opere attraverso figure di donne sfrontate, egoiste e senza amore, in questo romanzo vien fuori in maniera devastante.

Definito da Maria Nadotti uno degli scritti più “eccessivi” di Némirovsky, Jezabel racconta la storia di Gladys Eysenach, che conosciamo in un’aula di un tribunale. Gladys è una donna “ancora bella, malgrado il pallore, malgrado l’aria stravolta e stanca”, una signora elegante che si mette le mani al collo, in un gesto meccanico, per cercare la collana di perle che sempre l’aveva ornato, anche se il suo collo è ormai nudo e anche lei pare spogliata davanti al Pubblico Ministero, davanti a un pubblico di curiosi che, come a teatro, sono in attesa di vederla. La donna è accusata di aver ucciso il suo giovane amante, Bernard Martin, un ragazzo di 20 anni. Attraverso numerose testimonianze il velo della sua vita è squarciato e tutto diventa imbarazzante e doloroso -“Non fatemi più domande” implora “non parlerò più” . Attraverso un lungo flashback, il lettore conosce dunque la storia di Gladys Eysenach.

Incontriamo la protagonista del romanzo al suo primo ballo: ragazzina diversa dalle altre, Gladys è inquieta e l’ispirazione alla felicità è per lei “sete ardente che le attanaglia il cuore”, gioia di vivere che si trasforma a tratti in una tristezza profonda. Nel suo delizioso abito bianco, la giovane vuole solo piacere, attrarre, sentirsi desiderata da tutti. Col tempo il desiderio diventa totalizzante e tra feste e ricevimenti le lusinghe e l’ammirazione non le bastano più. Lentamente scopriamo insieme a Gladys cosa vuol dire vivere negli inferi della schiavitù della giovinezza. “Lei non voleva la bellezza fragile, patetica, minacciata della maturità; aveva bisogno dello splendore, del trionfo insolente della vera giovinezza. Quando anche l’essere più umile, attraversando il suo cammino, si girava; quando, nelle sere di Nizza, attraverso il rumore della pioggia d’argento che a marzo da quelle parti si abbatte a raffiche, sentiva, sotto i portici, la voce di un modesto fioraio: “Ehi! Bellezza, oh! Come sei bella…”, provava un appagamento, un benessere quasi fisico, simile a quello che segue l’amore”.

La penna di Némirovsky traccia con precisione un sentimento che diventa sempre più radicato e che allontana la donna da ogni forma d’affetto. Tutto diventa traccia del tempo che scorre, come la presenza della figlia che pur cercando in tutti i modi di farsi amare, diventando una donna dimostra al mondo l’età della madre. Gladys lotta con tutte le sue forze per nascondere i suoi anni eppure trucchi, abiti e gioielli riescono solo a celare l’inevitabile decadenza. Nonostante questo, in quell’aula di tribunale tutti vogliono vedere la donna che per anni ha affascinato gli uomini della società parigina di inizio secolo, quella che ha fatto invidia a ogni ragazza, perché la bellezza è ambigua e per questo ti stordisce e ti imprigiona.

“Che tu venga dal cielo o dall’inferno, che importa, Bellezza? Il tuo sguardo, divino e infernale, dispensa alla rinfusa il sollievo e il crimine” scriveva Charles Beaudelaire.
Così Gladys incarna il piacere e l’orrore, perché pur possedendo una bellezza fuori dal comune in fondo è una donna meschina, che arriva a macchiarsi di crimini orrendi per preservare il suo posto nel mondo. “Crede di aver vinto la vecchiaia. Ma la vecchiaia è dentro di lei. Può mostrare un corpo ancora agile e una schiena che sembra quella di una giovane, tingersi i capelli, ballare, ma la sua anima è vecchia. Peggio. È corrotta. Ha l’odore della morte” è la terribile accusa che Bernard Martin le farà prima di essere ammazzato.
È difficile empatizzare con un personaggio freddo, insensibile come Gladys nonostante il groviglio di emozioni, dalla paura alla cattiveria, che con maestria l’autrice tira fuori, pagina dopo pagina. Fino alla fine il lettore cerca un segno, un gesto di lei che possa restituirgli le sue ragioni profonde, indurlo a compatirla, ma così non è perché nel personaggio non esiste traccia di redenzione né di pentimento. E infatti meglio assassina che vecchia, meglio morta che decadente, Gladys è un Narciso che si specchia nelle acque e contemplando la sua immagine ci casa dentro, ma è anche la Jezabel della Bibbia, simbolo femminile di dissolutezza.
È forse questo l’aspetto più interessante del romanzo, legato alla tenace libertà della protagonista di non cercare redenzione, di accettare totalmente quello che alla fine è una sorta di assuefazione dalla quale è impossibile liberarsi: la droga del potere della bellezza, l’ebrezza del piacere a tutti. Non resta dunque che lei sola al centro del racconto, personaggio indimenticabile di un romanzo bello e terribile: le pieghe intime della sua ossessione, la sua clamorosa, ineluttabile sconfitta.

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