Le marocchinate e Maria Maddalena Rossi, deputata comunista e madre costituente, che si batté con coraggio per le donne ciociare

by Paola Manno

A Castro dei Volsci, un piccolo paese in provincia di Frosinone, una scultura ricorda una delle pagine più terribili della nostra storia. Si tratta del monumento alla Mamma Ciociara e vi sono rappresentate due donne strette in uno strano abbraccio: gli occhi al cielo, una madre fa da scudo al corpo di una ragazzina. Entrambe sembrano urlare una disperazione che non avrà più fine.

È questa la rappresentazione della guerra vissuta dalle donne, lontane dal fronte ma torturate dalle infinite conseguenze dei conflitti: la fame, la distruzione, la solitudine, la paura, la violenza. La mamma ciociara è, nell’immaginario culturale italiano, la figura di Sophia Loren in ginocchio su una strada polverosa, quella dell’intensa pellicola di Vittorio De Sica tratta dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, scritto nel 1957, eppure neanche il successo del film rese mai giustizia agli orrendi fatti narrati, perché la violenza sulle donne è ancora oggi un tabù.

La storia si insinua tra le luci e le ombre della Seconda Guerra mondiale, nel 1944, quando le truppe francesi aggirarono le linee difensive tedesche nella Valle del Liri, nel Lazio meridionale, permettendo alle truppe inglesi di sfondare la linea Gustav. Il generale Alphonse Juin, per “premiare” le truppe, promise “cinquanta ore di libertà” ai soldati. Quello che accadde fu una serie di violenze inaudite ai danni della popolazione inerme, in particolar modo alle donne, ricordata con il nome di “marocchinate” proprio perché i soldati appartenevano, in maggioranza, alle truppe dei gourmier francesi inquadrati del corpo di spedizione in Italia. I soldati fecero irruzione nelle case, depredarono e violentarono centinaia di donne di molti dei paesi del Cassinate.

A Esperia persino il parroco venne legato a un albero e subì una serie di violenze che lo portò alla morte il giorno successivo. A Vallecorsa non furono risparmiate neanche le suore dell’ordine del Preziosissimo Sangue. A causa delle violenze, centinaia di donne vennero contagiate da malattie veneree di ogni tipo, moltissime rimasero incinte e abortirono, altre abbandonarono il frutto di quelli stupri in orfanotrofi nati proprio allo scopo di accogliere quei neonati. Solo all’orfanotrofio di Veroli ne vennero abbandonati più di 400. Di fronte alla vergogna della violenza subita, molte donne non avevano parlato e molti uomini, per non “doverle cacciare da casa”, in quanto disonorate, non avevano chiesto, perché nonostante tutto la “morale” contava più del dolore e della giustizia.

A portare avanti la battaglia contro gli stupri di guerra fu invece una donna che oggi pochi ricordano: Maria Maddalena Rossi, deputata comunista e madre costituente, che si batté con coraggio per le donne italiane. Durante una seduta notturna alla Camera (che evidentemente era restia ad affrontare temi tanto “scottanti”) Maria Rossi ricordò quello che era stato “uno dei drammi più angosciosi che delle donne subirono dalla truppe marocchine della V armata tra l’aprile e il giugno del 1944. (…) Molte di queste vecchie donne sono malate, e queste vecchie parlano, raccontano cosa è accaduto. Ma le giovani no, in generale sono restie a parlarne, e se ne comprende bene il perché. Se per le vecchie l’insulto subìto sa quasi di martirio, per le giovani significa qualcosa di peggio della morte: significa avere di fronte a sé un lungo periodo di vita, ma una vita non ancora vissuta, buia e fredda, in cui non c’è alcuno spiraglio, alcuna speranza, alcuna luce, perduta la possibilità di avere una famiglia, dei figli”. Nella stessa seduta, la deputata denunciò il paradosso della società patriarcale, e cioè l’onore riservato alle vedove di guerra, e la vergogna su quelle stesse donne che invece avevano subìto stupri dai soldati.

“Noi riconosciamo le madri che hanno perso i figli in guerra, le amiamo, le onoriamo, si che esse trovano una sorta di conforto nel sapere che il lutto è condiviso. Ma queste donne no! Per queste non c’è conforto possibile! Si devono nascondere come se fossero infette! A queste donne si vorrebbe vietare di parlare, reclamare, in nome della pubblica moralità!”.

Era il 1952 e le parole di Rossi denunciano con chiarezza una situazione che avrebbe trovato giustizia solo nel 1996, quando la violenza sessuale non sarà più considerata un delitto contro la moralità pubblica e il buon costume, ma contro la persona.

Solo dopo 75 anni dai fatti, la Procura Militare di Roma ha aperto il primo fascicolo contro le violenze del 1944. E oggi quella statua a Castro dei Volsci racconta, attraverso le parole sulla targa “i tanti figli e figlie di questa terra/che ossequenti alle patrie tradizioni/ affrontarono con eroismo la morte/ in difesa del loro onore e della loro libertà”: ancora una volta, un modo generico per raccontare il dolore, per non dire invece proprio quel dolore, che è diverso da tutti gli altri e che per essere affrontato deve liberarsi dalla vergogna, dal senso di colpa e dal silenzio. C’è ancora tanta strada da fare.

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