Miladinovic, Carlà e Zhara, tre voci poetiche e il conflitto. Con lo stereotipo, l’ordine e il “subacqueo”

by Antonella Soccio

“Strappami la lingua madre poi

avvicina la tua bocca alla mia,

amplificami i lamenti, da permettermi

di dirti piano, a voce bassa

parole semplici, poche, dentro la bocca…”


JULIAN ZHARA

Quale rapporto c’è tra poesia e conflitto? Tra poesia e agitazione? Tre giovani straordinari poeti contemporanei italiani, il meglio della loro generazione, dentro un ambiente in fertile ascolto quale quello del Festival della Letteratura Mediterranea, conclusosi a Lucera, si sono sfidati dialetticamente incrociando la loro visione poetica ai versi e al loro essere italiani, in maniera diseguale, in continua relazione con la lirica di Petrarca, Pascoli, Leopardi, Zeichen, Gatto e Zanzotto e col poetare di altri scrittori del nostro tempo.

“Quando gli dei se ne sono andati, ci hanno lasciato l’intuito”, uno dei loro motti presi in prestito dal poeta surrealista di Area di rigore.

Tre poeti, Marko Miladinovic, Julian Zhara e Cristina Carlà, hanno intrattenuto il pubblico dialogando e leggendo i propri versi.  

Cos’è il conflitto in poesia e quanto serve abitarlo nel comporre? “Il conflitto è l’afflizione tra la lingua e l’inconscio, tra le letteratura e la vita” secondo Zhara, veneziano di origini albanesi, una delle voci liriche più importanti del Paese. L’albanese è la lingua dei codici profondi, quella che emerge nel sogno, di notte, nella rabbia. “Ciò che scrivo è un surrogato, una incarnazione, la poesia è il luogo dove esplode il corpo con l’anima, il conflitto tra le mie parole e l’ascolto del pubblico”.

Nel suo ultimo meraviglioso libro, prima raccolta poetica sistematica, dal titolo “Vera deve morire”, un contest seducente sulla fine di un amore, Zhara inchioda il lettore, che fa quasi le tende nei suoi versi, capaci di aprire abissi sotto quello che lui chiama spesso il “subacqueo”.

È diverso il conflitto per la salentina Cristina Carlà, autrice del fortunato testo “Il colore delle cose fragili”, nel quale la lotta politica e civile diventa un’affermazione del femminile, contro l’educazione, lo stereotipo e contro tutto ciò che viene venduto come vero dalla società. Ecco allora le liriche contro il Tap e per gli ulivi malati di Xylella. “La poesia per me è un modo per creare un certo disturbo, per impostare quello che sento, creare il dubbio nei confronti di chi continua a sonnecchiare. La poesia ha il compito di creare movimento, agitare appunto, che è il tema del festival”.

Più razionale e filosofico il conflitto per Miladinovic, metà serbo e metà svizzero, ma ormai italiano. “Il pensiero ha sempre accezioni negative, abbiamo perso il senso del cogito, dell’es-cogitare, il conflitto è naturale, è per me la definizione di gioia. Nelle parole, nel linguaggio c’è sempre una resistenza che va superata”.

Quasi anticipando la lingua di Napocalisse con Mimmo Borrelli, i tre poeti si sono interrogati sul loro rapporto col dialetto in un Paese, l’Italia, la cui lingua è ancora giovane, artefatta.

“Cerco di costruire qualcosa con le macerie che ho già distrutto- spiega Carlà- ci sono delle costruzioni fisse, delle unioni di parole che si ripetono nel nostro immaginario e che io cerco sempre di evitare”. Ha indagato sul vero senso delle parole Miladinovic per cercarne il sentimento autentico, nascosto. Alla colpa contrappone il torto, alla vergogna l’errore e l’imbarazzo, al giudizio la critica. “La lingua è già piena di pregiudizi, quando diciamo: il sole sorge, è come se rappresentassimo il Sole ancora come un pianeta che gira intorno alla Terra. Il linguaggio è sempre un ordine, un controllo. La poesia è la frattura di quest’ordine, per me il linguaggio non comunica niente, è un’apparizione”, ha osservato leggendo i suoi versi che rinviano ai futuristi e ad un poetare spezzato, tipico delle avanguardie.

“Ricordo che quando sono arrivato in Italia, studiando grammatica, ho incontrato spesso il passato remoto. Dopo un 20 anni nel Nord-Est italiano, penso di non averlo mai, dico mai sentito utilizzare da qualcuno nei discorsi, qualcuno, per essere precisi, che vive dall’Emilia in su. Quindi penso sarà impossibile trovare un passato remoto nei miei scritti, in prosa e poesia. Ancora oggi, quando qualche conoscente lo usa mi sembra artefatto e fittizio”, ha raccontato Zhara, che nel corso dell’incontro ha anche stigmatizzato quei poeti, come il famosissimo Franco Arminio, che “massaggiano le spalle” del pubblico con versi on line. “Quelle di Arminio sono schifezze, ancor più perché lui sa scrivere e usa il potere della parola per fare una melassa, per accarezzare il pubblico”.

I poeti hanno regalato i loro versi, conferendo una musicalità ai loro componimenti che vale essa stessa l’intero festival. L’agitazione della recitazione ha donato a Lucera, impegnata nel sabato sera della movida e del calcio dell’anticipo, una faccia nuova, bella e vitale, dissolta in una sorgente sotterranea che non sarà facile dimenticare, perché come si legge in un verso “quel che rimarrà infine di noi sarà fame e rumore”.

Continuo ad aggrapparmi disperato ai tuoi fianchi,

lasciami qui confuso, starti accanto, non opporti,

lascia il buio abbondare, in me, che la luce sbianchi

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