I love Rock n’ roll

by Roberto Pertosa

La seconda metà degli anni Cinquanta si identifica con l’importazione, in Italia, del fenomeno musicale del Rock n’ roll, che si traduce con la pubblicazione di un certo numero di dischi e di alcuni film di “successo” che contribuiscono a generare una rilevante frattura generazionale.

Tra una ciurma di imitatori si distinguono alcuni pochi interpreti innovativi (non citerò i nomi) che si innalzano tra i cosiddetti “urlatori”, e che dal “rock n’ roll” trarranno spunto per costruire, ad arte, carriere probabilmente irripetibili in Italia.
Questi ritmi, puntualmente e maldestramente scimmiottati, restano un episodio marginale fino alla metà degli anni Sessanta, quando esplode la moda beat e nascono i primi gruppi il cui repertorio è costituito prevalentemente da covers di successi stranieri.
E’ solo a partire dal 1969 che prende vita un rock italiano dai caratteri originali, il cosiddetto “Rock Progressivo”, generato, non si può negare, da interpreti di rilievo che, pur se ispirato chiaramente al modello del Progressive Rock anglosassone, produce una vera e propria dirompente antitesi rispetto alla tradizionale canzone leggera italiana tramite originali e innovative esplorazioni di sonorità, nonché ritmi emozionali glorificati da testi straordinariamente evocativi.
Tale parabola di controcultura si conclude a metà degli anni Settanta con la proiezione di nuove correnti che, come al solito, provengono dal panorama internazionale (nulla di aborigeno, come accadeva in passato con altre forme di arte). Il punk, che punta sulla concisione, l’essenzialità della strumentazione, un approccio fortemente oppositivo e spesso ironico che farà parlare di “rock demenziale”, la New Wawe, negli anni Ottanta, rappresentazione di un rock ancora una volta debitore nei confronti di tendenze britanniche e nordamericane, un vero e proprio “Rock indipendente”.
A partire dagli anni Novanta il rock italiano si apre ancor di più, se non bastasse, a influenze provenienti dai vari angoli del mondo, allargando lo spettro melodico, ritmico e timbrico sotto il segno di una crescente globalizzazione.
In fin dei conti, quindi, la rappresentazione del Rock in Italia è sempre stata, salvo rarissimi casi in un determinato e specifico periodo storico, una versione mediocre, posticcia, che non si è mai saputa tramutare o plasmare in una versione originale tramite una trasmigrazione elastica delle nostre radici sonore.
Ritmi e note costantemente obsolete di un rock di serie B scopiazzato e replicato, con fare musicale secondo le mode del momento. Senza originalità, intuizione, idee, spesso monotono, stucchevole, senza salti estroversi o emozionali, mai eclettico, mai organico, perennemente e strutturalmente monocorde, rappresentazione di un patetico tentativo di allestire pseudo presenze sceniche, nonchè eccessivi e decontestualizzati cammuffamenti, perfino posturali, allo scopo evidente di sopperire alla totale assenza di ritmi veri e contenuti, risolvendo perennemente nel classico “tutto fumo e niente arrosto”.
Questo consueto costante e tipico daffare anonimo e dozzinale ha espresso, in un paese in totale stato fallimentare in tutte le espressioni d’arte, la sua attuale figurazione musicale, e prodotto la inevitabile e predestinata o preannunciata morte del cosiddetto “rock italiano”.
Ma forse, a ben valutare, questo fenomeno musicale da noi non è mai nato ed esistito veramente, e forse mai avrà una degna configurazione o addirittura mai un’origine.
E solo una penosa manifestazione canora come Sanremo, fenomeno di esaltazione della mediocrità canora, ancor più figlio inevitabile dei tempi, poteva sancire definitivamente questo infausto paradigma.
I love Rock n’ roll!

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